lunedì 28 marzo 2016

Lettera a un giovane pittore di W. Yeatsuh


Io oggi sono un vecchio, a tutti sconosciuto, come le stanze di questo luogo dove vivo, e dove ancora trascorro i giorni nella professione che sempre ho seguito, con amore e diligenza, felice delle mie mani che ugualmente i miei sogni e il mio tempo componevano.
Perché il sogno e la realtà subito in me hanno combaciato nella stessa figura, da quando ai miei occhi apparve la grazia di un dipinto, ed essa posò in me il desiderio di trasformare una disordinata esistenza nella bellezza di una perfetta forma, e così scelsi di essere pittore.

Quella rivelazione e quella brama sono ancora presenti in me. E le parole che nel tempo ne hanno precisato la natura ancora non hanno risposto a quel primo stupore, e neppure ne hanno esaudito ciò che sembravano chiedere per placarsi: una autentica opera d'arte. Perché se l'arte è un patto, o una disputa, tra un Dio e un uomo, devo riconoscere che in me ha vinto quest'ultimo, se nella vita ho compiuto opere di così poco conto.

Guardando ai miei quadri ritrovo in essi una immatura esuberanza, la facile convinzione di trovarne il senso oltre la misura delle cose, e l'essenza che le contiene l'ho cercata imponendo alle mie mani un atto che le esagerava iscrivendole oltre se stesse nell'ansia di un segno che superasse di splendore l'esistenza ritratta. Solo ora capisco che più che un urlo il mio lavoro abbisognava di modestia, fino al silenzio; chiarità (1) di una visione così come ho sempre ammirato nelle opere dei Grandi: eterna natività dove il tempo e la bellezza fiorivano dentro i bordi di una superficie estranea alla brama che invade la mano non guidata da uno spirito creatore.

Ora i miei limiti mi sono chiari e visibili, così come il percorso che nel tempo, tra questi costretto, si è svolto e di tutto ciò che non si è compiuto comprendo la ragione e l'inevitabilità. Solo di un pomeriggio, ora lontano nel tempo, che camminavo nella solitudine di un bosco e all'improvviso apparve, al centro di una piccola radura, sopra una pietra piatta, un candido bicchiere di vetro, conservo il ricordo come qualcosa di estraneo al destino dei miei giorni, una annunciazione che avrebbe potuto volgere a me il sogno, l'epifania tanto attesa. Mi avvicinai a quel bicchiere e dentro vidi una mosca che annaspava nel poco di acqua rimasta, forse portata dalla pioggia della notte. Rovesciai il bicchiere sull'erba e così salvai la vita di quell'insetto. Ma quell'incontro, tanto improvviso e fortuito eppure così prezioso per quella vita, è sempre rimasto in me come un sottile presagio, una parabola, che non sono riuscito a comprendere, percependone un senso (segno) che le parole mai hanno afferrato e tradotto in un insegnamento.

II 

Pure un tempo ho vissuto dove i miei giorni si scioglievano tra le speranze e le complicità che sono proprie del nostro mondo, gareggiando sulle onde di un mare che lontano doveva condurmi: al porto di quello che sempre avevo sognato. Come tutti mi adoperavo per il mio interesse, volgendo in acqua idee precedenti se le nuove sollecitavano il favore di qualche potente, o tramando per posare le mie opere in una luce che non gli spettava, e che solo i miei illeciti accordi poteva accendere. Ma sono stati piccoli segni, cenni, squilibri di un'anima mediocre; miseria di un sogno che immiseriva lontano dalla luce in cui si rivelò, e che non vale ricordare.

Ora vedo tutto questo e capisco come io di me sia stato niente più di un'altra malinconia. Perché solo ciò che accade è, e non vale fingersi altrove dai propri atti, se solo questi esprimono la nostra natura e permettono il compiersi dei disegni e delle annunciazioni che compongono la realtà e in quella la nostra vita. Così ho deciso di scriverti questa lettera, giovane e caro amico, sperando che da essa traspaia solo l'intenzione di una testimonianza che, almeno per un attimo, ripari all'assenza che nella vita ho praticato, e non la presunzione di un vecchio che solo l'età, e niente altro, autorizzi a parlare.

III 

A chi oggi si accinge a percorrere una strada sull'orlo di una catastrofe, che tale mi appare la vita di chi intenda viverla da pittore, conviene guardare davanti a sé: la luce che viene dalle proprie spalle fa solo ombra ai passi, né serve a rischiararli la grandezza del passato. Ma se è giusto porsi la domanda del senso e del ruolo del proprio lavoro, altrettanto sia limitare a se stesso la risposta. Perché puoi solo scegliere della tua vita; il tempo della tua epoca non ti appartiene, e i segni del futuro, che certo esistono, sono spesso confusi, frammisti a tanti altri, che spesso ciò che vanta o professa questo nome dimostra, nel volgere di poco tempo, solo la propria vanità e leggerezza.

Il futuro, in pratica, è in te. Sei tu che devi rispondere e scegliere i passi che il tempo in te compirà; di ciò che è più lontano saranno altri a rispondere, con la stessa chiarezza di coscienza che in te riconosco. Ma questa stessa domanda ha in sé una sua verità che subito puoi afferrare. Perché se nessuno può rispondere di ciò che il futuro dispone, o se e per quanto la pittura continuerà a esistere, è certo che all'interno di questa disciplina le diverse epoche passate hanno un volto netto e preciso la cui forma non è più proponibile alle epoche successive. Questa è una piccola certezza della quale nessuna convenienza o pigrizia deve mai farti dubitare.

Pure il rapporto con il nostro passato merita una piccola riflessione che insieme a te voglio provare a percorrere. Nessuna epoca è stata come questa attenta alla conservazione delle opere d'arte del passato. Un bravo pittore italiano, con un certo umorismo, l'ha definita percorsa da "libidine di restauro", e in parte questa frase ha una sua verità, una sua giustificazione, che proverò a esporti. Subito lontano da te l'idea che lo Spirito, che tante mirabili opere ha compiuto nel corso dei secoli, sia ora improvvisamente arretrato o scomparso; esso continua a parlare al cuore degli uomini e questo secolo ne è tra le più alte testimonianze.
Prova a pensarlo da qualche punto ad esso estraneo, e ti accorgerai di quanto stupore e quanta bellezza esso abbia creato, e come l'uomo sia stato, come mai prima, così fecondo e innovativo, superando vincoli espressivi che parevano, fino ad allora, di una assoluta certezza e insormontabili. Eppure la condizione di un pittore si è fatta più difficile anche se oggi è più facile vivere di pittura che nel passato.

Sorta per inseguire lo splendore di una nuova terra e definire la forma nella quale posare la sua visione, l'arte del nostro tempo si è vista decapitata di questo suo slancio. L'Altrove a cui mirava, mirabile soffio da ricomporre sulla lucida superficie di una tela, è un luogo a cui più nessuno oggi desidera giungere e tutto ciò che gli occhi cercano sono segni che niente altro chiedono se non la luce di qualche vetrina. Maestà volta a umili tornaconti ! Inutile specchio di ciò che La compì! Ed è al posto di quella scomoda verità che oggi si sta instaurando una specie di "culto della morte", cioè delle opere d'arte del passato che private intorno a sé di una autentica cultura e amore per l'arte contemporanea, la sola che possa renderle e farne oggetto di vita, altro non diventano che simulacro di una vuota bellezza, distaccata lontananza ridotta al ruolo di oggetto di consumo.

Anche un Dio morirebbe se il suo culto si cristallizzasse in una formula immobile nel tempo, perché tutto ciò che è della storia a questa deve tornare. Perché niente ha più bisogno di uno spirito creativo intorno a sé quanto un'opera d'arte del passato. È solo nel respiro di questo nuovo soffio che prende vita il senso e la ragione che la ispirò; e attraverso questo continua a mostrarsi in tutto ciò che la formò: principio a cui ancora tende, e che alcune parole possono forse indicare: la culla di una civiltà. Del resto non solo materialmente si può distruggere un'opera d'arte, ma anche privandola della sua funzione: non oggetto di un passato da venerare, ma elemento di vita, carne che ancora si pronunci all'interno di un'epoca che non abbia rinunciato allo stesso principio che la generò, il solo che può rendere viva la sua bellezza e maestà.
E perché questo succeda dovrai volgere gli occhi lontano da quel passato che tanto ammiri, nella direzione opposta, e davanti a te dovrai cercare una nuova forma che ospiti il soffio che quella generò, perché così continui il senso e il fine di quella esistenza nella nuova opera che sembra disconoscerla. Ecco quello che dividerà il tuo cuore, e che sarà il senso della tua vita. Solo in te tutto ciò che è stato può continuare a esistere, ma solo nel momento che lo dimenticherai per annunciare la tua novella; come un Cristo, venuto a segnare l'inizio dei tempi entra nel tempio e scaccia i mercanti.

IV 

Come vedi sto parlando a te come ad un antico cavaliere, deciso a scendere in campo a difesa dei propri ideali, mentre era mia intenzione solo darti qualche consiglio, qualche pratico suggerimento; mettere la mia esperienza al tuo servizio, che ti permettesse di vivere il tuo mondo in maniera più cosciente di quanto io stesso feci, quando compivo i primi passi, le prime scelte. Come tu sai le antiche icone svolgevano una precisa funzione: esse dovevano "mostrare l'invisibile", testimoniare la presenza del sacro su questa terra, ed erano l'incontro di un talento artistico e di precise regole compositive che la tradizione aveva definito. Il loro svolgimento però non era sufficiente a renderle quell'oggetto di culto e venerazione che era il fine della loro creazione. Perché questo succedesse ­ acquisire cioè una sacralità ­ era necessaria una liturgia religiosa, un complesso di cerimonie che le investisse di un "sacro carattere".

Ricordati questi due momenti: uno, quello artistico, che compie l'opera, l'altro, quello pubblico, che la investe di una "divina natura", perché ancora oggi, come sempre, un'opera d'arte per esercitare la propria funzione e acquisire il suo ruolo sociale, che ne è il destino e il compimento, ha bisogno di una liturgia, certo non più religiosa ma laica, e che è l'espressione e la definizione della stessa epoca in cui cresce: essa ha dunque oggi bisogno che il mercato la riveli e la nobiliti. È solo attraverso di esso che oggi una piccola tela, come l'antica tavola ricoperta di pigmenti colorati, riceverà la propria venerabilità.
Perché se è il tempo a mostrare il volto delle cose, ed il senso di tante esistenze prende corpo e si rivela nell'atto finale, pure voglio dirti che pochi sono gli occhi che sanno vedere, e che la pietra alchemica ­ la sola che potesse mutare i metalli in oro ­ è l'oggetto più comune e più raro del mondo, se essa è dovunque ma nessuno sa vederla.

Dunque il tuo essere artista nel mondo si svolgerà attraverso questo sistema che è il mercato. Esso è il tuo destino, la tua possibilità. Il luogo dove dovrai vivere volgendo altrove il fine della tua vita e delle tue opere, come Ulisse una volta giunto vicino all'isola delle sirene. Consideralo un tempio indegno del tuo Dio, ma necessario alla natura degli uomini perché essi possano posare su di Lui gli occhi e Ne ascoltino la voce. Abitato da persone diversissime, a volte grandi nell'aiutarti, più spesso mosse da interessi bassi e mediocri che ti blandiranno con false promesse perché in te conoscono solo il proprio interesse. Rifuggi da questi ultimi perché niente in cambio potranno mai darti. A volte ti scontrerai con l'anima di un bambino che nel tuo quadro sceglie un giocattolo, a volte con quella di un commerciante che in esso vede principalmente un profitto; non osteggiarli ma comprendi bene la loro natura.

Non avere fretta né impazienza; né dovrai porre la tua presenza al centro dei tuoi problemi. È già successo, e non solo nel mondo dell'arte, che se di un certo appuntamento è sembrato quasi necessario dire "io ci sono", più confortante, dopo qualche tempo, è stato ripetere " io non c'ero". La Storia, in fondo, è sempre viva finché può partorire un nuovo giorno. Nel tuo cammino troverai persone come te attente e sensibili ai destini della pittura. Anche se il loro giudizio è naturalmente diverso dal tuo ascolta le parole spiacevoli e tieni in giusto conto quelle che apprezzeranno il tuo lavoro; e non considerare mai l'attenzione degli altri per te come qualcosa di dovuto e gratuito; perché è un dono che tu ricevi e del quale devi essere fiero. E non comportarti come un malinconico Don Chisciotte: il mondo, ­ così come è, è il tuo fine e il tuo destino, non il tuo teatro, dove tu sei chiamato a dare vita ed esistenza a ciò che più è simile all'uomo e al sogno, o al destino, che lo porta nel corso dei secoli.

Perché se molti furono gli stili che apparvero sulle tele come sulle scene di questo mondo, e diverse e lontane le epoche che gli furono da cornice, pure qualcosa ­ la stessa ­ ha sempre vissuto nel cuore come nell'opera di ciò che tu chiami i Grandi del passato. Quella parola, pur strano che possa apparirti, è "solitudine", che non è, come si crede, un deserto intorno, ma l'esistenza in qualcosa che ancora non ha forma, né voce, né simili, e che niente tra ciò che fino ad oggi è stato fatto può ospitare e mostrare, e che solo tu, misteriosamente e senza nessuna investitura, sei chiamato a portare alla luce. Questo è ciò che contraddistingue tutti quelli che ami e amerai. Diversissime e inconciliabili esperienze, vite opposte e contrarie, eppure ognuna nella stessa brama di fuggire ciò che fino ad allora era stato perché questo potesse continuare a vivere, a parlare, nel sogno o nell'impeto che li guidava; il domani misterioso riflesso dei giorni passati, nel cui grembo crebbe l'impeto che oggi lo nega: una patina appena smossa ..... (2) .......... .......... .......... .......... .......... .......... .......... .......... ..........


Ed ora, mio caro amico, è venuto per me il tempo del congedo. Delle distorsioni e piccolezze di cui ti ho accennato, e che abitano il nostro mondo, sappi che tutte le ho praticate; delle grandezze a cui le mie parole miravano solo un attimo di pensiero sono state, e mai ho sentito il soffio creatore attraversare le mie mani. Sono stato una minuscola piega del tempo; pazientemente ho raccolto dei segni lontani e diversi ordinandoli in questa piccola biblioteca che è l'io. Prego perché nel Giorno Nuovo qualcuno ricordi il mio nome.
William Butler Yeatsuh


NOTE DEL TRADUTTORE
 1) Anche se il significato nella lingua italiana è diverso ho voluto tradurre con chiarità un termine che W.B.Y. aveva coniato per esprimere "una chiarezza che si fa fisicamente visibile come un'alba"
2) Come sarà apparso evidente questa da me presentata è solo la parte scritta ­ conosciuta come la "partitura apparente" ­ di quella che viene giudicata una riflessione sulla pittura da parte di William Butler Yeatsuh, opera non certo pari alle sue più famose. In questo stesso punto dove ho preferito interrompere il naturale svolgimento del testo, continua, nell'originario manoscritto dell'autore, una serie impressionante di segni, lettere alfabetiche, parole comuni e altre inventate, forme astratte o figurative, formule matematiche e geometriche, note musicali, posate sulla pagina in un apparente e incomprensibile disordine che continua fino alla breve parte finale (V), in questa edizione integralmente riportata, e che ritorna ad una funzione comunicativa. Lo stesso autore parlando di questo suo testo disse che "si doveva pensare ad un iceberg la cui parte visibile corrisponde a quella scritta, che però prende corpo e movimento, come è nella natura di qualunque segno, dalla parte sua più profonda, e ai nostri occhi invisibile, ma più compatta, e di un senso e di un significato assai più complesso e reale, senza il quale tutto lo svolgimento dell'opera e del creato verrebbe meno"


mercoledì 23 marzo 2016

Pierluigi Romani, verità e illusione

Pierluigi Romani nasce a Lucca nel 1936, nel quartiere di San Paolino. I primi studi ad indirizzo artistico sono presso il locale Istituto d’Arte Augusto Passaglia ai quali seguono quelli presso l'Accademia d'Arte e Design Leonetto Cappiello, a Firenze, frequentando i corsi serali per grafica pubblicitaria.
I primi anni di vita si svolgono in un'atmosfera tranquilla e serena, simile a quella di tanti altri figli di un'agiata borghesia cittadina, quando l'entrata in guerra dello Stato Italiano nel giugno 1940, la successiva malattia del padre, dirigente bancario in un'agenzia torinese, culminata nella morte nel 1954, infrange quella serena realtà. La necessità di una autonomia economica e di una occupazione si fa compagna della sua gioventù, indirizzandone radicalmente il corso e gli equilibri.

Nell’ottobre del 1958 va ad insegnare all’istituto dove si è diplomato, dapprima Decorazione Murale (1958-1967) e poi Tecniche della Pittura su Tavola (dal 1967 al 1981), integrando questa attività ad una costante pratica della pittura. Esperienze, questa dell'insegnamento e quella del pittore, che sono sempre felicemente convissute: l'una arricchita dalla pratica dell'altra, in quel continuo scambio di idee e progetti tra le due attività, che sono proprie di una natura introspettiva, incline all'indagine e alla osservazione del mondo e dei suoi avvenimenti. Nel 1973 consegue l’abilitazione in Discipline Pittoriche, presso l’Istituto d’Arte di Massa.

Completati gli studi scolastici, a poco a poco, la pittura si insedia nella sua vita come l'elemento primario ed essenziale, intorno al quale i fatti e gli avvenimenti dei giorni si piegano e si ordinano. Il primo momento dove coltivare e frequentare il proprio sogno, allora ancora incerto e forse non ben chiarificato alla coscienza, è stato nel 1955 in un piccolo spazio adibito a studio ricavato nella propria camera da letto, tra l’odore dei colori e dei quadri che tutto impregna. Si dedica a quella attività con tenacia e accanimento, tra gli slanci e le disillusioni che sono proprie della gioventù e la segreta speranza che quella attività gli potesse dare un giorno da vivere, ma Lucca era allora una città abbastanza defilata culturalmente, stretta al proprio passato e poco incline a favorire le giovanili avventure artistiche che avessero a propria meta e ideale un mondo nuovo, aperto alle luci e alle voci del proprio tempo. Perfeziona qualche vendita; di tanto in tanto amici ed estimatori gli sono vicini e di aiuto, ma questi episodi non gli permettono di raggiungere una autonomia economica e dovrà così adattarsi a diversi lavori occasionali senza alcun rapporto con la sua attività artistica.

Sul finire del 1956 si trasferisce all’ultimo piano di una vecchia casa, nel cittadino quartiere della Rosa, che parenti paterni gli mettono a disposizione: è il suo primo vero luogo di lavoro. Qui, quasi isolato dal mondo, trova le condizioni ideali alla propria attività, quasi come il giovane concittadino Puccini una volta giunto, nel 1891, sulle sponde del vicino lago di Massaciuccoli, ambiente tanto diverso da questo cittadino, ma simile nel difendere la riservatezza e la creatività dei propri ospiti.
Ma nell’estate del 1960 dovrà lasciare quegli ambienti. Nei mesi che seguirono affitta nel centro storico, sopra un cinema, un’altana – già appartenuta a un altro pittore – che si apre alla straordinaria facciata della chiesa romanica di San Michele: vi rimarrà fino all’inverno 1963, dipingendo su carta e su tele opere informali. Poi, ancora, cambia studio; un amico scultore, in accordo col comune che ne è proprietario, gli lascia i locali che sono parte di una casermetta sulle mura rinascimentali di Lucca. Qui resta fino all’estate 1966 e qui inizia un nuovo periodo della sua storia artistica: quello della Nuova Figurazione.

Da allora e per gli anni successivi eserciterà in studi e ambienti ricavati nelle varie abitazioni in cui ha vissuto e vive. Ubbidendo al proprio temperamento, proiettato su scelte e posizioni indipendenti e desideroso di costruirsi un proprio linguaggio, procedendo tra dubbi ed esitazioni e quasi dimentico della sua prima educazione artistica, la sua anima s'incontrerà, a volte scontrandosi a volte inchinandosi, a quella di tanti artisti amati: Soutine, Munch, Sironi, ma anche i paesaggisti toscani della seconda metà del XIX secolo.
In quel periodo sentiva le sue idee vaghe, imprecise, e allora inadatte a comprendere e definire ciò che egli portava in sé, nella propria profondità. Solo capiva che sarebbe stato inutile cercare di seguire le orme di qualche altro artista, diciamo Paul Klee, che a Romani è sempre piaciuto, perché in questo caso - pensava - si diventa inevitabilmente il seguace e lo sfruttatore, o peggio il copista, delle invenzioni di qualcun altro.

Anche il suo mondo espressivo aveva seguito e assecondato il mutare delle idee e delle sensazioni che sono proprie di un'anima libera. Dall’autunno 1958 si allontana man mano dalle iniziali rappresentazioni realistiche; il suo interesse espressivo si sposta radicalmente e volge, cercando ispirazione e sostegno, in un mondo le cui immagini vivono principalmente in un luogo mentale. I suoi quadri sono abitati da temi e soggetti che gli sono consueti, ma in parte ricostruiti attraverso i dati e le illuminazioni della memoria. Come in una pagina della proustiana Recherche la realtà e la memoria si trascrivono e si fondono nell'immaginazione che dà forma concreta alla sua visione.

La prima esposizione avviene nel 1954, in una collettiva a Pontedera. Seguiranno poi altre manifestazioni, rassegne, episodi culturali ai quali l’artista partecipa: a Gorizia, La Spezia, Lucca, Firenze, Viterbo e Venezia. I suoi dipinti sono notati dai critici e dal pubblico; nel 1956 prende avvio la sua partecipazione ad una vita artistica più intensa, che si protrarrà, ininterrottamente, fino ai giorni nostri con la presenza a importanti rassegne d’arte, ai premi nazionali, alle fiere internazionali: Bari, Roma, Bologna, Miami in Florida. Di pari passo si susseguono esposizioni in varie gallerie private, in città italiane ed estere, ottenendo premi e consensi quasi dovunque; tanto che i suoi quadri si trovano oggi in diverse collezioni pubbliche e private.

Tra il 1957 e il 1967 compie ripetuti viaggi fondamentali per la sua maturazione artistica. Si allontana da Lucca, visita la Francia e poi la Spagna. In Italia si sposta a Firenze, spesso è a Bologna, a Torino, soggiorna per brevi periodi a Venezia, più lungamente a Roma e a Milano in un periodo in cui la città lombarda, ormai divenuta metropolitana, è punto nevralgico della cultura italiana.
Qui erano confluiti, legandosi con l’ambiente e i gruppi di tendenza formatisi nel luogo, personalità diversissime di artisti, punti di riferimento significativi della storia dell’arte italiana del dopoguerra. Anche Romani in parte partecipa a questo mondo: si avvicina all’ambiente delle gallerie, visita gli studi di amici, musei e pinacoteche e quando è possibile si reca alle grandi mostre dedicate all’arte moderna e contemporanea. Entra in contatto con le esperienze delle avanguardie storiche; esamina i mezzi e i metodi degli interpreti che egli maggiormente ha ammirato: Boccioni, Picasso, Henry Moore, Paul Klee, il “Movimento Cobra”, la Scuola di New York, Emilio Vedova, Hundertwasser, Francis Bacon.

Nel gennaio 1957 alla galleria Apollinaire di Milano erano stati presentati undici dipinti monocromi di Yves Klein: “Proposte Monocrome Epoca blu”. Nella capitale, a partire dal marzo 1958, sono invece visibili presso la Galleria d’ Arte Moderna le risoluzioni pittoriche di Jackson Pollock. Venutone a conoscenza, Romani intraprenderà quel viaggio: si trovò faccia a faccia con opere dal forte impatto emotivo che ritenne, fin dal primo sguardo, superbe creazioni. Ricorda ancora oggi cosa significò per lui, in quell’anno, la vista di quei quadri: la suggestione di Pollock non lo lascerà più, divenendo il vero e proprio catalizzatore della sua immaginazione.

Nel 1959 a Firenze conosce Carlo Hollesch, Vinicio Berti, Gualtiero Nativi e Silvio Loffredo, poi ad agosto è presente all’inaugurazione della mostra “Vitalità nell’arte” a Palazzo Grassi a Venezia. L’anno successivo a Firenze, nel mese di gennaio, la galleria Vigna Nuova propose le opere di Hans Hartung. Romani ebbe modo di studiare, profondamente, il suo lavoro, così come si era costituito fin dal 1932 quando il pittore tedesco aveva affrontato gli aspetti dell’arte non figurativa con una maestria che, ai suoi occhi, trasformava ogni quadro in una vigorosa affermazione d'arte, qualcosa di fermo, di compiuto come un’evidenza o una certezza.
Lo stupiva l’espressività del suo gesto, il graffiare con azioni impulsive la tela per imporre dei segni ad un tempo meditati e istintivi; davanti ai suoi quadri provava un’attrazione ossessiva, persino un po’ magica, ma contenuta e dominata da una grande sensazione di purezza. Nell’aprile 1962 è a Roma per vedere l’opera di Ben Shahn, un altro degli artisti a lui cari.
In particolare polarizza il proprio interesse sui maestri che hanno avuto rilevanza sulla sua formazione: Fontana, Asgern Jorn, Jean Dubuffet, Wols, Klein, Giacometti; dalla loro opera, all'apparire degli anni ottanta, pone l’attenzione verso la più recente ed attuale “Nuova Pittura Austriaca e Tedesca”: da Rainer e Beuys in poi. Essi gli consentono di penetrare un’altra realtà che dischiude imprevedibili orizzonti e soluzioni al suo operare, mostrandogli un’idea diversa della modernità, forse meno compiuta ma certo più palpitante e vitale.

Dal 1958 al 1963 spesso è a Roma, la domenica mattina, a seguire le conferenze sull’arte e sull'architettura contemporanea che in quegli anni hanno luogo alla Galleria d’Arte Moderna tenute, tra gli altri, da Giulio Carlo Argan, Bruno Zevi, Apollonio, Dorfles, Enrico Crispolti, Calvesi, Barilli, Marisa Volpi. Segue con attenzione gli sviluppi delle correnti artistiche e le loro ramificazioni, l’evoluzione delle ultime tendenze attento ai grandi temi delle vicende culturali in Europa e nelle Americhe. Nel giugno 1962, nuovo viaggio a Venezia per visitare la XXXI Biennale d’Arte; scopre la scultura e la pittura di Alberto Giacometti: una rivelazione assoluta che lascerà in lui tracce indelebili, assumendo il valore di un simbolo visivo, premonitore di un tempo e di una società abitata da una umanità estraniata e solitaria.
Nell’aprile del 1964, all’Istituto d’Arte di Roma di via Conte Verde in occasione della mostra che la scuola dedica agli anni della Bauhaus, fa la conoscenza con Aldo Calò, allora direttore, che incontrerà ancora negli anni successivi e diviene amico di altri artisti che operavano nella città. Nello stesso anno raggiunge ancora Venezia per recarsi all’esposizione di Jean Dubuffet: “L’hourlope”; quei quadri gli mostrarono nuove soluzioni e prospettive sulla trama e sulla partitura pittorica.

Queste conoscenze dirette di tanta produzione artistica a lui contemporanea, la naturale inclinazione alla speculazione teorica, all'indagine sul proprio operare, indirizzeranno e svilupperanno la sua ricerca, ampliandone i mezzi e le tecniche impiegate. Affronta la pittura direttamente: senza disegni, schizzi o studi di colore. In cuor suo ritiene che più l'atto pittorico è immediato e diretto, più ampie e proficue sono le possibilità di arrivare a esprimere la propria idea, il proprio mondo: il cuore dell'immagine o della forma rappresentata.
Produce serie di opere riferibili a precise tematiche, lavorando ad esse, con fervore e continuità, sempre cercando di mantenere una sua personale identità all'interno delle tendenze e delle correnti pittoriche che più continuano a suggestionarlo, pur condividendo con alcune di quelle lo stesso clima espressivo, lo stesso pathos creativo, tanto da identificarsi nella loro impostazione teorica e nel clima sociale che le accompagnava.

Muovendo dalla osservazione della realtà, che rielabora in una fusione tra il soggetto e l'atmosfera che la circonda, approda a un naturalismo (1956-1958) che per lui non significherà mai lasciarsi guidare dalla realtà per assecondarla e riprodurla supinamente, come invece era assunto del movimento, sviluppatosi in Francia nella seconda metà del XIX secolo, per cui l'obbiettiva riproduzione della realtà era il fine del fare artistico, senza lasciare spazio per interpretazioni soggettive. Romani, al contrario, cerca in essa riposte verità, fruga sui volti e sulle forme del reale le sopite e segrete architetture che le compongono. Esegue alcune nature morte, paesaggi e vedute della sua città, che impronta sul vero e rielabora nello studio, con notevoli effetti di profondità. Sovente, non potendo procurarsi le tele deve accontentarsi della tempera e del pastello su carta: di ciò, della produzione di quel periodo, non resta più nulla.
Ma già premono nuove esigenze: inizia a dipingere integralmente forme non figurative e a poco a poco approda, con crescente convinzione, ai moduli dell’Astrattismo Geometrico (1958-1960). L’astrazione risponde per lui ad un bisogno di ordine e chiarezza, come una necessità spirituale prima che formale. Legge, quasi studiando, i Diari di Paul Klee, scritti dal 1897 al 1918 e i testi delle sue lezioni tenute al Bauhaus di Weimar da 1921 al 1924: i Contributi alla teoria della forma e della figurazione. Guarda all’opera di Mondrian, vede i suoi dipinti a Venezia, insieme a quelli di Malevic, Picasso, lo stesso Klee, Magnelli, Vedova, Arp, Franz Marc. Conosce Kandinsky leggendo Lo spirituale nell’arte, pubblicato nel 1912, e Punto, linea, superficie del 1926.

Fra la fine del 1958 e il marzo del 1959 Romani concepisce la sua prima opera astratta: una tempera, matite colorate e inchiostri su carta, giungendovi mediante una progressiva deformazione dell’oggetto che finalmente viene disciolto e assorbito nella impaginazione astratta. Concretizza, in tecniche miste, il lavoro di questi due anni che comprendono una breve serie di composizioni che tracciano sui supporti itinerari profondi e coerenti, nella ricerca di una sintesi tra spazio materia e ritmo: “I dialoghi”, “I diari”, “I pensieri svelati”, “Il limite della notte”, “Festa di compleanno”.
Ma subito oltre la sua pittura, superando l'impalcatura del razionalismo geometrico, si porta verso nuove formulazioni, sciogliendosi in un movimento più fluido di forme e linee-forza che preludono e sanciscono il suo sconfinare nell’Informale (1960-1965) che avverrà di slancio, seguendo una naturale germinazione del suo spirito creativo. Su questo nucleo progetta e coagula scenari urbani, topografie metropolitane e monumentali: dipinti polimaterici su tela e carta intelata, dalle superfici corrose e scalfite, pulsanti di energie intuitive e mnemoniche. Una fitta selva di graffi e di linee violente, di campiture monocrome che si compongono in una precisa architettura che ne ordina le cadenze e lo spazio.

Le prove iniziali denotano una velata assonanza con gli artisti d’oltre Oceano dell’ “Action Painting” dei quali guarda alle rivoluzionarie novità, che tanto incideranno sulla sua formazione poetica, arrivando singolarmente vicino, nei risultati, al gruppo milanese “Movimento Nucleare”. Appartengono a questo periodo la “Civiltà del Neon”, “All’inizio dell’ombra”, “Trame sospese”, “Pensieri ordinati”, “Ossidazioni”, “Le impronte”, “I grattage”, “Le geologie”, “Le combustioni”, “I personaggi”, “Il mago di Oz”.
Alla fine di questo complesso e ricco periodo si può considerare ormai fondata la personalità artistica di Romani. Conclusa la fase delle esperienze informali, che copre cinque anni di crescita continua e prolifica, subentrerà una pittura più sensibile e coerente alla propria matrice europea; senza però mai adagiarsi alle suggestioni di linguaggi e soluzioni già consolidate e tentando di scongiurare lo spettro del cliché stilistico. Sul finire del 1964 trova il coraggio di proiettarsi in avanti, quasi di ignorare il proprio passato, e ancora seguendo voci e cadenze interiori si apre a una svolta profonda nello stile che si orienta adesso verso il linguaggio della "Nuova Figurazione" (1965-1977) vissuto anche come espressione di un umano disagio esistenziale e sociale.

L’avvicinamento ad esso è tutt’altro che indolore, costellato da momenti di pessimismo, di amarezza, di pause, di lunghi mesi fermo a lavorare sugli stessi schemi, da frequenti riesami e verifiche prodotte e causate dalla insoddisfazione che si avverte quando lontano, a volte irraggiungibile, appare il fine che si è prefisso. Ma insieme alle imprecise rotte, all'ansia di nuovi orizzonti che sempre lo abita, Romani sente ora che il suo lavoro comincia ad identificarsi con la sua persona, avverte il combaciare delle proprie composizioni e dei propri sogni, il consolidarsi di una identità che unisce l'uomo e il pittore: tra il 1966 e il 1967 concretizza le prime tele ai suoi occhi finalmente governate da un equilibrio compositivo ostinatamente perseguito, e modulate con fine sottigliezza pittorica.

Il colore si restringe nei toni, nelle gamme chiuse e sorde delle terre, del nero e dei grigi. Usa, per gran parte dei suoi dipinti, una tecnica a tempera, congeniale per la sua manualità, ugualmente vibrante e rattenuta, smagliante e opaca. Ne risulta una pittura antigraziosa che non persegue un intento estetico, ma sorretta da un credo umano e filosofico: rivelare l'incongruenza dell’esistenza, mostrare l’esilità delle cose, la loro provvisorietà, l’aspetto aspro e inelegante della realtà.
I suoi temi sono ora quelli di una città tetra, pervasa da un senso di disgregazione, sull'orlo di un incubo: muri umidi e screpolati, teorie di bucati gonfiati dal vento, appesi alle corde tra buie e dismesse finestre, interni privi di ornamenti, stanze desolate dove regnano letti disfatti, pentole di alluminio annerite sulla fiamma del gas, periferie grondanti di oggetti e cose abbandonate: spazi allucinati dove si muovono figure illividite, segregate dietro reti metalliche, chiuse nel muto furore di una condizione quasi disumana del vivere quotidiano. Sono “I corridoi”, “I tunnel”, “La città avanza”, “Gli scali ferroviari”, “L’hinterland”, “Gli ascensori”, “Le scale mobili”, “I gasometri”, “Le sopraelevate”, “I rottami”, “Gli incidenti stradali”, “Gli interni”, “Nature morte”.

Nel 1972 Pier Carlo Santini vede i dipinti di Romani e prende ad interessarsi al suo lavoro inserendolo, di fatto, nel ristretto gruppo di pittori che, con rigore, solitamente seguiva e curava. Si stabiliscono così, con il critico d'arte lucchese, legami di fraterna amicizia e comunità di ideali durati fino alla sua scomparsa nel 1993. In quei primi anni settanta allaccia rapporti assidui con altri critici e storici dell’arte a seguito di articoli e presentazioni degli stessi sulla sua attività: ricordiamo Silvano Giannelli, Luigi Carluccio, Marcello Venturoli, Antonello Trombadori, Franco Solmi, Mario De Micheli, Gianni Cavazzini, F. Fabiani e altri.
Pur non subendo le forti oscillazioni stilistiche dell'età più giovane, Romani continua ora il proprio cammino, interiore e compositivo, quasi alla ricerca di un impossibile eden pittorico.
Accantonate le forme e strutture precedenti, accede ad altre ipotesi, altre prospettive, che attraverso graduali passaggi lo portano a nuove risoluzioni interpretative nella cui scia trova ancora visioni ed emozioni, partecipi di una poesia che sfocia in una dimensione surreale e fantastica (1977-1989). Dentro atmosfere alchemiche, luoghi di imprevedibili apparizioni ed eventi, nella fluidità della luce, materializza e sviluppa il suo racconto pittorico che possiamo adesso dividere in due periodi: quello dell’ “Epopea del Jazz” (1977-1982) e quello dei “Teatri di posa” (1982-1989) che comprendono una cospicua serie di oli, tempere e acrilici, percorsi da motivi eseguiti senza un istante di posa; tutto è acceso in gesti e segni costruttori, una frenesia gestuale, spina dorsale portante e caratteristica essenziale di questa sua opera.

Compone l’immagine per approssimazioni: una sorta di smantellamento per segni che insieme cancellano e costruiscono, e che portano l’artista a modificare continuamente i risultati dei propri lavori, fino a trasformali del tutto; una specie di palingenesi cosmica, al cui culmine si rivela e si manifesta lo sforzo creativo, come l'unica forza capace di ordinare il cosmo e la materia. Procedimento che mostra alcune analogie con l'operare sia di un Giacometti sia di un Wols, dai quali, nel processo esecutivo, sembra recuperare l’andamento filiforme, dell’uno, e l’ispessimento segnico dell’altro. Il colore palpita e vive di un cromatismo prezioso ed acceso.

Già dal 1958 Romani conosce una speciale attrazione per la musica jazz, ascoltando i dischi o frequentando gli spazi abituali a questo tipo di musica. Questi luoghi costituivano per lui anche motivo di ispirazione, sia per la passionalità che avvertiva in quei ritmi sia per i personaggi, i gesti, le espressioni tipiche di quel mondo fascinoso che poteva frequentare e vivere, per poi trasportarlo nelle sue tele, nelle sue composizioni. Ritagliatosi uno spazio di tempo, fra l’inverno e la primavera di quell’anno, presero forma un gruppo di piccoli pezzi a tempera su tavola, soggetti da tempo posti al centro della sua attenzione, come “Il Batterista” e “Gli interni di un night”. Con lo stesso approccio completò poi, uno dopo l’altro, l'immagine di due sax baritono, a tempera e matita su cartone, di faticosa esecuzione per la complessa e intricata definizione architettonica dell’oggetto.
Furono questi piccoli lavori premessa e semi che fiorirono, dopo circa vent’anni, nel 1977, nella realizzazione di dipinti sorti nell'esperienza e nel ricordo di quelle precedenti orme: “Suonatori e vocalist” opere dall’aspetto elegante, ma racchiuse in un clima malinconico e dolente che il pittore raffigura nei colori acidi della luce artificiale, immersi nelle fumose cantine dei cabaret d’avanguardia, luoghi di eventi che sembrano appartenere sia al futuro che alla memoria. Così lavora ai quadri su “I Jazzmen” che coglie e fissa, sulla superficie pittorica, come improvvisate ed effervescenti “jam session” ambientate in semplici locali di quartiere, emblemi di una vita notturna allucinatoria e fantasmatica, eppure così reale.

Sempre in quella scia prosegue con “I ritratti” ispirati ad alcuni noti musicisti, avvincente galleria di tipi umani: Duke Ellington, Armstrong, Coleman Hawkins, Fats Waller, J. Turner. J. Venuti. S. Grappelli. Chet Baker, Benny Goodman, di cui rigenera sulle tele i lineamenti nel tentativo di penetrare e strappare da quei volti enigmatici, segnati spesso dalle esperienze di una vita frenetica, un frammento dei motivi o della genialità che li guidava. Ogni personaggio raffigurato è un mondo a sé, composto di sentimenti contrastanti, di astuzie e meschinità, di consapevoli sofferenze, di umiliato candore. Come possedute da una frenesia grafica, impietose, le fitte pulsazioni dei segni scavano nei volti le rughe del tempo, scoprono nelle asimmetrie somatiche l’equivalenza di un disagio, o di una serenità; frugano al di là degli occhi, vacui o struggentemente espressivi, per portare alla luce il cuore e il mistero di una personalità, celata in un atto fragile come un inconsistente involucro esteriore.

È l’ossessione e l’intensità con cui si sente legato al soggetto, a offrirgli l’impulso necessario al lavoro, nell'analisi di alcuni strumenti musicali tipici dei complessi jazz che Romani affronta, evidenziando angolazioni e inquadrature distinte: il clarinetto, la cornetta, il violino, la tromba, la chitarra e il sax, esplorati nei dettagli con precisione analitica, organizzati in una struttura compositiva rigorosa sviluppata, generalmente, sull’asse verticale. C’è un clima magico, un alone di inquietudine sospesa in questi strumenti: essi, pur rappresentati realisticamente, fluttuano tra spazio e tempo; presenze impenetrabili e misteriose, ad un tempo solidamente compatte e precariamente evanescenti, avvolte in un caldo segno di luce, vibrante di scie, riverberi, segni e bagliori accecanti che ne eccitano la stesura, animandola di segrete energie.

Romani dipinge queste immagini, al centro del campo visivo, come appoggiati su una parete virtuale intessuta di cupa e teatrale vastità, dalla quale emergono evidenziate quelle osservazioni che spesso si ripresentano nei suoi quadri, quali l’ingrandimento del primo piano, o il forte coinvolgimento passionale che anima sia i musicisti che i loro strumenti musicali.
A partire dal novembre del 1979 prese forma in lui l’ipotesi di un progetto da molto tempo custodito in sé: tornare a uno dei temi più cari del passato: il sassofono. Lontana visione legata a stilemi di un momento particolare del suo percorso pittorico, momento di estrema sensibilità che risorgendo ora dal passato, affiora in nuove forme, ricostruite sul tasto della memoria e del ricordo.

Nascono così quadri che si susseguono durante tre anni di confronto con questo stesso modello a lungo conservato nel proprio animo, espressi con una materia densa e luminosa, rappresentati da diversi punti di vista, attraverso prospettive e tagli dinamici che mirano a creare un senso di sorpresa, di stupore, sia intellettuale che emotivo. Tra la fine del 1982 e la primavera del 1983, ottiene il risultato ricercato e voluto. In poche settimane iniziano a definirsi le prime composizioni riguardanti gli altri concetti raggruppati sotto i titoli: “Studios e palcoscenici”, “Riprese cinematografiche”, “Teatri ed apparati di scena”, “Scenografie fantastiche” che lo impegneranno per circa sette anni in una immutabile e immutata perseveranza, attraverso proiezioni mentali e slanci inventivi, sospesi in una incerta zona di confine tra la realtà, il sogno e le impronte psichiche dell’inconscio. Luoghi e ambienti di cui ha registrato immagini, sensazioni, ricordi, ora ricostruiti dalla sua sensibilità e dalla sua fantasia: sedimenti affollati di informazioni, patrimonio stabile della memoria.

Nel maggio 1980 entra in rapporto con Carlo Ludovico Ragghianti, che nota alcune sue tele da un collezionista, dipinte negli anni fra il 1974 e il 1979. A questo primo incontro ne seguiranno altri, nel suo studio. In questi mesi l’artista sta preparandosi per una personale, accompagnata da un catalogo, che terrà a Torino nell’ottobre 1981 alla galleria La Bussola. Il noto critico, al termine di quella visita, gli fece capire che avrebbe scritto un saggio per fare il punto della sua pittura, un saggio da utilizzare come presentazione per l’esposizione che avrebbe avuto luogo di lì a poco. Romani userà questo stesso testo anche per altre mostre che si succederanno in Italia: nel febbraio 1982 a Cuneo alla galleria Linea, a Lucca in aprile alla galleria Guerrieri, a Rovereto in maggio alla galleria Delfino, a Firenze nel novembre 1983 alla galleria Michaud. Ragghianti affermò che si sarebbe riservato un’altra occasione per conoscere meglio le sue opere antecedenti al 1974; l’evento non si poté mai verificare data la sua scomparsa.

Gli anni dal 1977 al 1989 chiudono così questa sua stagione caratterizzata da una pittura fulgida e turbata, percorsa da roventi invadenze e inesprimibili dolcezze. Nell’inverno 1978, in occasione di una mostra personale alla Galleria Menghelli a Firenze, Carlo Mattioli e Fortunato Bellonzi intervengono alla serata inaugurale. Fra il 1990 e il 1997 Romani si riavvicina al neo-figurativismo: rivive e si riappropria dell’intensa esperienza figurativa, ricercandone le radici e recuperandone forme, volumi e colori. Compie una rilegatura tra presente e passato, tra lontane evocazioni e il tumulto del presente in cui palpita e si esaspera il suo fervore immaginativo, nel ricercare una nuova messa a fuoco, una nuova chiave di volta della realtà. Dipingere a memoria pensando al vero e dipingere dal vero un’immagine della memoria.

Produce parecchie repliche e varianti di ogni tema che concretizza con le tecniche a lui consuete: “Paesaggi con l’ultima neve”, “Rocce”, “Le cascate”, “I roveti”, “Linfa e clorofilla”, “Tracce e foglie”, “Vegetazione e sterpi”, “Gli interni dello studio”, “Le nature morte”, “A proposito di Venezia”, “Dedicato a Verona”, “I ritratti di Alberto Giacometti”, “Interni con jazzmen”. Nel 1992, espone a Bruxelles in una mostra personale alla Banca di Roma; in quell’occasione visita il Belgio. Il 1998 coincide con un suo radicale mutamento di linguaggio e finalmente può svilupparsi la nuova forma del suo lavoro che in lui andava maturando da tempo, in una chiarezza crescente. Con una presa di coscienza della sua terra natale, aderendo al suo più profondo istinto, egli scopre nel paesaggio intorno la linfa segreta che lo circonda e lo anima, archetipo della sua stessa esistenza. La forza di quella realtà che gli sta di fronte, a lui separata e divisa e in cui, tuttavia, può rispecchiarsi a coglierne la propria essenza.

Il suo soggetto preferito diviene l'ambiente naturale, la natura colta negli aspetti grandiosi: delle vedute fluviali della valle del Serchio che corre tortuoso lungo zone impervie e isolate, fra colline, anfratti, seguendo il dispiegarsi di catene montuose coperte di boschi. Ne rimane incantato e sogna di trarne una serie di tele. Per la costruzione dei suoi quadri riunisce ora tutte le tecniche, dall’assemblaggio al collage e al grattage; usa tempere, acrilico, olio, lacca, gessi, sabbia, paglia, carbone, matite per accrescere la densità, la vitalità e la sensualità della pigmentazione. Ritrova questi temi uniti nel sentimento e nella memoria, li sente come simboli primitivi dei suoi stati d’animo; ne è assalito e invaso e li accumula nel dipinto con l’impeto e la liberazione di una confessione appassionata, come un flusso di parole che rivelino il parallelo flusso delle sue esperienze e, in questo, del suo modo di esistere. Quasi una procedura simile a quella che era stata, sul fronte delle lettere, quella di Joyce in tante pagine del suo Ulisse.

In quelle immagini di stagioni e di momenti di una natura più libera e selvaggia vi è una antica e perenne analogia con le sue diverse stagioni spirituali: in esse gli par di cogliere l’aspetto di foreste impenetrabili, di terre senza orizzonti e senza cieli. Tutto è sciabordio di acque e vegetazioni che un inverno lunghissimo ha conservato nel suo gelo, per poi sciogliersi improvvisamente nelle tonalità di colori infiniti, di luce fulgide e acerbe, o in morbide trasparenze:
"Aprile è il più crudele dei mesi: genera / Lillà dalla morta terra, mescola /Ricordo e desiderio, stimola / Le sopite radici con la pioggia primaverile / L'inverno ci tenne caldi, coprendo / La terra di neve obliosa, nutrendo / Grama vita con tuberi secchi/..." aveva scritto T. S. Eliot nella sua La Terra Desolata, nel 1922, testo centrale da cui si dipana tutta la successiva poesia del XX secolo.

Folgori entro il fitto bosco, tronchi carbonizzati, foglie che vibrano nella luce ancora soffocata del dopo tempesta, grumi di neve e di terra: tutti i motivi di un paesaggio naturale e romantico sono interpretati come sostanza stessa della materia pittorica. Il suo è un rapporto profondamente umano con la natura, vissuta, in una visione panteistica, come nutrice e sostanza di ogni realtà, plasmata a specchio del proprio sentimento individuale. Nel 1998 parte per gli Stati Uniti e soggiorna a New York. Al Museum of Modern Art è in corso la retrospettiva di J. Pollock, la più estesa finora dedicatagli. Ritrova la pittura che ha sempre amato, di uno degli esponenti fondamentali nella storia dell'arte del XX secolo.
L’opera inimitabile del pittore americano, la sua breve carriera, l’avventura umana vorticosamente trascorsa, gli trasmette una concezione più vitale dello spazio, del movimento, della luce. La spontaneità che volge all’estremo suo bordo, in una frenetica e magnificente scrittura di pura intuizione e trascrizione. Romani, all’inizio, si era entusiasmato, nell’opera dell’artista, per la potenza e l'eccesso che l'abitavano. In seguito, per la sua pura vivezza e la sua eloquenza; infine per l'ampia gamma di sentimenti e di umori espressi, il loro dispiegarsi senza niente di sé voler rattenere o celare.

La visione della metropoli e del suo hinterland non suscitano in Romani specifiche sensazioni; a New York la vita è più esigente, più intensa che nella città natale. Spostandosi nel territorio, durante un viaggio verso le terre del nord-ovest della costa atlantica, viene a contatto con la vasta orizzontalità della terra e la drammatica infinitezza degli spazi, in un susseguirsi di panorami mutanti, vedute di laghi, di terre, e mari. Lo spettacolo che lo circonda conquista la sua attenzione e il suo animo, gli permette di conservarne un ricordo fitto di dettagli, di paesaggi sociali e ambientali. Al suo rientro in Italia, nel 1999, riprende il lavoro interrotto trasferendo e riunendo in esso le suggestioni avvertite, ancora vive e presenti in lui: “Tra cielo e terra”, “Altrove”, “Piano preparatorio”, “Distanza dal paesaggio”, “Quantità altrove”, “Giochi d’acqua”, “Giorni d’estate”, “Nell’alveo”, “Il cuore dell’inverno”, “Dall’altra parte”.

Nel 2000 e fino ad oggi, in alternanza e in affinità con i motivi descritti, l’artista insiste su questi temi che hanno come comune denominatore i paesaggi d’acqua e promuove una serie di quadri in cui entrano e si sviluppano le immagini di acquitrini e paludi del delta del Pò e della Camargue, una zona umida dove sfocia il Rodano a sud di Arles, in Francia, che scopre e guarda con occhio e animo aperto, colpito dalla bellezza maestosa, quanto magica, di questo regno naturale. Scorci di un ambiente estremo, immerso nel silenzio delle lagune, delle lingue di sabbia, dei pigri fossi, degli stagni con le acque piene di riflessi imprigionati nei grovigli vegetali, fra canneti fruscianti e lembi di selve quasi impercorribili, evanescenti nei giochi della foschia e dei fumi che si confondono con le nuvole di soffocate penombre in cui la luce si scioglie e si raddensa.

Questo mondo lo porta ad indagare, più da vicino, le forme fondamentali della natura, intime e segrete, e le sue forze misteriose e invisibili, ma attive, assimilando lentamente le memorie dei luoghi per renderseli ancora più familiari come paesaggi abituali al proprio animo. Sono questi i punti di partenza che vanno a costituire una sua ulteriore variante tematica e creativa, che si aggiunge all’arco del suo percorso artistico, in uno scorrere di paesaggi che fisserà sulle tele ripetutamente, come per proteggerli e sottrarli all’inesorabile corrosione del tempo, nel mutare delle stagioni, dove trova la forma espressiva più consona al suo modo di pensare e di vedere.
Con il primo piano quasi sempre in controluce, immerso nell’oscurità, esposto alla resa del rapporto luministico tra l’elemento acquatico-vegetale e l’orizzonte, dove filtrano, intensi, i bagliori del sole al tramonto. Questi i motivi che ora ispirano la sua visione e la sua fantasia, offrendogli un repertorio di infinite soluzioni che determinano in lui un costante stimolo compositivo.
Le sue raffigurazioni vogliono forse essere frammenti di una grande carta geografica che, alla fine, completata può mostrare un mondo ideale, atteso e invocato. Imperniata attorno a questa missione la pittura di Romani, austera e ugualmente ruvida, vive nel colore di una maniera pastosa e materica, a tinte monocrome e cupe, attraversate da lampi di luce, evolvendo il suo stile tra un naturalismo di procedimenti e un espressionismo di contenuti. Negli ultimi anni esegue: “Diario lagunare”, “I paesaggi d’acqua”, “Quantità Camargue”, “Distese di fango”, “Terra bruciata”, “Ho occupato le terre della palude”, “Forma acquatica”, “Erbario”, “Brughiera”, “Nel cuore dell’inverno”, “Ventuno anni di solitudine”.

Oggi, guardando alle sue tele, i suoi paesaggi, i suoi acquitrini, la sua personale Palus Putredinis di sanguinetiana memoria, si rimane indifesi e colpiti dalla maestà dell'ordito, che una striscia di luce dall'alto quasi sempre attraversa, posandosi, slargandosi alla base, per invadere poi la scena. E in quella luce riverberano le orme del suo cammino, che senza mai abbandonare la propria rotta, insensibile agli scoramenti e alle suggestioni, hanno calato fin quaggiù, su questa terra d'orizzonti bassi e lontani, il segno e la presenza di altre luci e mete che l'arte ancora è capace di custodire e di rivelare.

Arturo Lini, marzo 2010 - Biografia ragionata, in Pierluigi. Romani, figure dell’eclissi, testo in catalogo alla mostra personale presso Ex Real Collegio, Lucca, ed. Caleidoscopio, Carrara.



Si sono interessati alla sua professione, con articoli e presentazioni, critici e storici dell’arte, come: Umberto Baldini, Giovanni Colacicchi, Giorgio Seveso, Armando Nocentini, Tommaso Paloscia, Giuseppe Brugnoli, Giovan Battista Bassi, Filippo Abbiati, Renzo Federici, Silvano Giannelli, Corrado Marsan, Renzo Biasion, Luigi Carluccio, Angelo Dragone, Enzo Fabiani, Renzo Margonari, Dario Micacchi, Carlo Ludovico Ragghianti, Mario De Micheli, Franco Solmi, Antonello Trombadori, Jean Pierre Jouvet, Pier Carlo Santini, Luigi Lambertini, Gianni Cavazzini, Mario Penelope, Luigi Bernardi, Paolo Levi, Marcello Venturoli, Franco Passoni, Luigi Servolini, Mario Perazzi, Giorgio Di Genova, Mario Rocchi, Nicola Miceli, Sandro Martini, Mario Monteverdi, Mario Portalupi, Lucia Toesca, Lino Cavallari, Francesco Prestipino, Marcello Vannucci, Vittoria Corti, Roberto Zangrandi, Sandro Zanotto, Giuliano Serafini, Ernesto Borelli, Camilla Ferro, Gianluigi Versellesi, Nani Tedeschi, Piero Santi, Giuseppe Trevisan, Mario Marzocchi, Michelangelo Mazzeo.



lunedì 14 marzo 2016

La collezione Dati

La collezione Dati si costituisce, pur nelle diverse e varie acquisizioni presenti in mostra, intorno alle opere di quattro pittori: Ernesto Altemura, Luciano Bastianelli, Mario Cosci, Nelson Tommasi.
Quattro pittori nati a Stiava (LU) negli anni venti del secolo scorso i cui dipinti mostrano la vitalità di una tradizione pittorica che travalica i confini di un ambito locale per inserirsi a pieno titolo nella storia della pittura figurativa versiliese.

Ernesto Altemura. (Stiava 1929) inizia a dipingere nel 1947. Nel 1952, si diploma Maestro d’arte e nel 1953 inizia la sua attività con l’esposizione presso il Principe di Piemonte di Viareggio con giovani pittori quali Angelo Jarusso e Giuseppe Banchieri. Si stringono da quel momento frequentazioni artistiche e durature amicizie tra cui Renato Santini, Eugenio Pardini, Serafino Beconi, Fausto Maria Liberatore, Giuseppe Martinelli, Vasco Giannini, e Mario Cosci. La critica dalla fine degli anni ‘50 ha sempre colto in lui una riproposizione della questione del realismo sottolineando come la sua pittura possa considerarsi già in parte un fenomeno post informale. Molteplici e costanti nel corso del tempo le mostre e i riconoscimenti alla sua opera.

Luciano Bastianelli è nato a Quiesa nel 1930. Fin da subito ha dimostrato attenzioni e attitudine alle arti ed ai suoi risvolti dividendosi nella sua carriera fra stilista, molto apprezzato nel mondo della calzatura, e artista sensibile nell'ambito della pittura.
Portato a diversi contatti in tutto il mondo per il suo lavoro, ha colto ogni occasione per affinare e far crescere il suo status pittorico, maturando esperienze preziose con confronti ed applicazioni degne delle migliori scuole. Ha tenuto mostre personali e collettive, partecipato a premi e concorsi di pittura, riscuotendo consensi e affermazioni. Ha vissuto tra Firenze e Stiava (LU); negli ultimi anni si è trasferito a Lido di Camaiore dove è morto nel 2014.

Mario Cosci, è nato a Stiava nel gennaio 1922. Interrotti gli studi universitari per la chiamata alle armi nella 2a Guerra Mondiale, negli Anni Cinquanta, si dedica attivamente al dibattito culturale allora vivissimo in Versilia. Iscritto alla Accademia di Belle Arti di Firenze, frequentò i corsi di disegno e nudo. Nel ’50 inizia l’attività pittorica e si dedica nel contempo alla poesia ed al racconto. In quegli anni prende parte alle manifestazioni di pittura più importanti a livello regionale e nazionale, riscuotendo eccellenti riconoscimenti. Le sue opere si trovano in collezioni private e pubbliche, sia in Italia che all’estero. L’opera letteraria, che spazia dal ’59 al ’62 è composta da trentadue poesie e quattro racconti, pubblicati postumi nel libro “Perché ciascuno ci ascolti” edito da Pacini Fazzi di Lucca. Muore nel 1968 a soli 46 anni.

Nelson Tommasi è nato a Stiava nel 1929. Ha frequentato l’Istituto Musicale Boccherini di Lucca fino al quarto anno, quando ha dovuto interrompere il corso degli studi in seguito ad una malattia del padre.
Negli anni cinquanta si avvicina alla pittura come autodidatta, sempre condizionato dagli impegni di lavoro che limitano il suo tempo e la sua applicazione alla passione artistica che così profondamente lo abita, portandolo a soggiornare in Germania ed in Libia.
Questa condizione non gli impedisce una continua ricerca personale che si afferma nel tempo con lo sviluppo di una personale tecnica pittorica ad affresco su juta, caratterizzata dalla accesa e vibrante sensibilità cromatica.
Nonostante i diversi spostamenti, sempre per motivi di lavoro, è rimasto fortemente legato al suo paese natale, dove il nove gennaio 2004 si è spento all’età di 74 anni.

Maria Teresa Pierotti e Rodolfo Dati si sono sposati nel 1955. Accomunati da un comune amore per l’arte e i suoi protagonisti, trasformatosi nel tempo Rodolfo in corniciaio per meglio esaudire intenzioni e progetti degli amici pittori, la loro casa diventa subito luogo di incontro di artisti: un piccolo cenacolo fatto di amicizia e convivialità, ma anche luogo di scontri e rivalità come è costume di ogni mondo e ambiente artistico. Una piccola corte rinascimentale che nel tempo si è fatta ampia documentazione di un periodo tra i più fecondi della pittura versiliese. Vivono a Stiava nella loro bella e accogliente casa piena di quadri e dipinti.

Altri artisti in mostra: Ballarin, Mario Calogero, Mario Cardosi, Cavani, Casa, Marino Consani, Gianpiero Cipollini, Cirillo, Massimo Dati, Marco Dolfi, Di Volo, Loriano Geri, Krimer, Arturo Lini, Giuseppe Lippi, Magliani, Michetti, Muslinger, Mario Polloni, Antonio Possenti, Renato Santini, Antonella Salvetti, Beppe Serafini, Alessandro Tofanelli, Tommasi Ferroni, Twrdy, Giancarlo Vaccarezza, Valenti, Maria Stuarda Varetti, Viti.

Arturo Lini - Presentazione alla mostra La collezione Dati, Villa Gori, Stiava (LU), 2011

Riflessioni naturali, fotografie di Amerigo Pelosini

"Riflessioni naturali" è il titolo di quest'ultima serie di opere fotografiche di Amerigo Pelosini, fotografie anche queste dedicate al Lago di Massaciuccoli, ai suoi molteplici paesaggi che prendono vita tra le sponde e i quieti canali. Mostra che viene dopo "La natura (dis)ordinata", titolo di una precedente esposizione tenuta nel 2008 della quale Simone Romani, in un breve testo introduttivo, sottolineava come la fotografia di Amerigo "cattura la bellezza originaria, trascurata o solo dimenticata, restituendo un’immagine della natura che ha il sapore della scoperta".

In quest'ultima prova del fotografo versiliese l'obbiettivo della fotocamera racconta l'incontro tra l'occhio umano e il virtuale punto di vista della stessa natura, quando i soggetti che appaiono sulla foto vengono a raffigurare l'unione dell'elemento naturale e della sua immagine riflessa: come la natura a se stessa appare, nelle acque che ne diventano specchio.
Operazione che quasi sembrerebbe voler prendere il volo da una impostazione concettuale, alla quale poi si sposa la solita maestria del fotografo, ma che in realtà segue una predisposizione, una vocazione tutta interiore, già ravvisabile, seppur in maniera embrionale, in tutta l'opera fotografica di Pelosini, anche in quella di più stretta osservanza paesaggistica: cioè di rappresentare l'ambiente naturale come scena autonoma e, ugualmente, simbolo di un più vasto respiro e ordito.

Sembra quasi un'annunciazione questo comune fiorire di elementi e dettagli dell’habitat lacustre e della loro immagine nel capovolto specchio delle acque del lago. Un sussurrarci qualcosa nella quale il paesaggio vuole rimescolare i punti di vista: un invito ad andare oltre il dato immediato ed evidente delle cose, oltre il punto prospettico che ordina e dispone il creato alla misura dell'uomo e dei suoi passi.
A una riflessione sul rapporto tra uomo e ambiente ci invita dunque questa mostra fotografica di Amerigo Pelosini, non solo nel più comune senso di un profondo rispetto e amore per l’ambiente, ma anche nella considerazione di saper cogliere in "ciò che appare" l'espressione di altri ordini e universi, paralleli e diversi dal nostro, con le loro leggi e necessità, che le abitudini, limiti o superficialità umane sopiscono o celano agli occhi, ma ugualmente vivi e potenti nell'ordine e nel respiro del creato.

Arturo Lini -
Introduzione alla mostra Riflessioni naturali, di Amerigo Pelosini, Torre del Lago Puccini (LU), 2011

sabato 12 marzo 2016

Porti moli e pontili nella storia versiliese

Aprendo la pagina di qualsiasi sito delle nostre amministrazioni comunali - intendendo per nostre quelle i cui confini insistono sulle spiagge versiliesi - balza subito agli occhi come tra le testimonianze più preziose del proprio territorio che esse ci mostrano - chiese o pievi, antichi manieri o bellezze naturali - ci siano i pontili, i porti, i moli. Alcuni sono recentissimi, altri riportano indietro il tempo a quando queste spiagge erano luogo di lavoro, di fatica, e la loro presenza oltre ad assicurare industrie e attività lavorative era sufficiente perché intorno prendesse vita una comunità, un villaggio, che il tempo poi trasformava in realtà sempre più ampie.
Guardando oggi a questi stessi luoghi sospesi nel tepore dei giorni, vivendo in essi il quieto trascorrere del tempo, risulta difficile pensare che per buona parte della loro storia i nostri antenati hanno dovuto lottare contro un ambiente ostile, in gran parte inabitabile, improduttivo, cosparso di macchie e boschi quasi impenetrabili, di acquitrini e paludi. In questa lotta tra l'uomo e l'ambiente un approdo, una foce utilizzabile allo scalo di navi e merci ha spesso rappresentato l'inizio di un significativo cambio di qualità della vita: un braccio di legni e travi che avanzava sopra le acque del mare era il segno di una trasformazione sociale e ambientale, quasi il segno di una nuova civiltà.

Il villaggio etrusco di San Rocchino
Già nell' VIII secolo a.C limitate e circoscritte opere di bonifica del terreno erano state portate a termine dalle popolazioni etrusche che vivevano nella piana costiera tra la foce del fiume Magra e quella dell'Arno. Assecondavano in questa usanza un loro antico costume: di realizzare, dove concesso dagli elementi naturali e ambientali, opere e interventi di ingegneria idraulica per migliorare e rendere più favorevoli la fertilità dei terreni e le condizioni dell'ambiente che li ospitava.
Il villaggio etrusco di San Rocchino, posto in un terreno di confine tra i comuni di Massarosa e Viareggio, ne è testimonianza. Sorgeva in un'area formata di terreni acquitrinosi, poi bonificata attraverso la posa di legname e fascine che davano una qualche solidità a un modesto insediamento fatto di capanne in materiale deperibile, di forma quadrata o rettangolare, il cui pavimento era d'argilla. Serviva da scalo marittimo ai traffici di merci e persone lungo le coste tirreniche che ebbero il loro momento di maggiore attività nel VI sec. a.C.
Fu poi distrutto intorno al II secolo a.C., e quindi abbandonato, nella lunga guerra che qui ebbe luogo tra romani e liguri per il controllo di questa parte di territorio.

Le bonifiche romane
Anche i romani s'adoperarono a opere di bonifica. Vaste e importanti, come quelle attribuite a L. Papirio, da alcuni identificato in un funzionario della Roma imperiale, vissuto molto probabilmente a Lucca o a Pisa, a cui si devono le Fosse Papiriane, un insieme di opere idrauliche costituite da un reticolo di fosse condotte dalle paludi interne versiliesi alla costa marina, utili al deflusso in mare delle acque piovani e stagnanti, impedite al loro normale scorrere dalla depressione dei terreni e da un cordone di dune e tomboli venutosi nei tempi preistorici a formare, nel lento moto delle acque e delle correnti.
Opere queste necessarie, oltre al risanamento del territorio, anche alla manutenzione delle vie terrestri e marine, destinate ai commerci e agli spostamenti di truppe ed eserciti che qui, provenienti da Roma o da Pisa, transitavano verso Luni e le zone nord-occidentali della penisola, nonché alla piena funzionalità di alcuni scali interni alle acque del Lago di Massaciuccoli.

L'antico porto di Motrone
Tramontato l'impero romano, dopo il susseguirsi delle invasioni barbariche con la loro scia di devastazioni e distruzioni di tutto quello che la civiltà romana aveva progettato ed edificato, bisogna risalire all'epoca medievale per trovare notizia di un porto attivo lungo il territorio versiliese: è il porto di Motrone del quale abbiamo prime notizie intorno all'anno mille. Era situato alla foce dell'antico fiume Sala, posta ad alcuni chilometri dalla cittadina di Pietrasanta.
La sua attività era protetta da un fortino militare che ospitava una modesta guarnigione qui inviata dalla Repubblica di Lucca alla quale apparteneva quello scalo marittimo, usato anche dalla Signoria fiorentina, che evitava ai governi lucchesi l'obbligo di usare quello pisano, con il suo balzello di dazi e dogane.

Serviva da scalo alle navigazioni costiere tra Marsiglia, Genova, Piombino, Roma: almeno a imbarcazioni leggere, fino ai trenta metri di lunghezza. Ogni anno andavano e venivano a quell'approdo circa 150 navi, che attraccavano in prossimità della riva, mostrando in questo movimento una discreta vitalità, anche considerando la moltitudine delle barche più piccole che lo frequentavano. Rimase in attività fino ai primi decenni del XVI secolo, quando divenuto proprietà dei Medici fu da questi - che già disponevano dello scalo pisano - progressivamente abbandonato, lasciandolo esposto all'inevitabile interramento che ne segnò il definitivo tramonto.

Il porto di Viareggio
Del resto la Repubblica di Lucca da tempo aveva posto le proprie attenzioni ad uno scalo più vicino e più funzionale ai propri traffici, identificando in quello di Viareggio il porto idoneo ai propri scopi. Per facilitare la sua realizzazione si era impegnata, già a partire dalla seconda metà del XV secolo, in una serie di progetti per bonificare la spiaggia viareggina e l'intero entroterra che dai piedi del monte Quiesa, suo naturale davanzale alla costa tirrenica, arrivava alla costa versiliese. Nel 1488 viene costituita una società, la Maona, associazione di cittadini incaricata di procedere a tutti quegli interventi ritenuti necessari all'attuazione dell'opera di bonifica.

Interventi che si ripeterono nel corso dei secoli, affidati a eminenti scienziati e studiosi, con esiti alterni, fino ai progetti e all'opera del matematico veneto Bernardino Zendrini che intorno alla metà del XVIII secolo, con il drenaggio delle acque paludose e l'abbattimento della macchia marittima circostante l'allora piccolo abitato di Viareggio, iniziò quell'opera di riassestamento e bonifica del territorio che doveva poi condurre  alla costituzione della prosperosa cittadina di epoca moderna.
Il primo segno di questa volontà del governo lucchese era stata la costruzione dell'attuale Torre Matilde, terminata nel 1534, che veniva giusto a sostituire una torre di avvistamento e difesa alzata nel 1172 a segno di dominio e tutela sopra questa sua marina, spesso luogo di scontri e battaglie tra gli eserciti lucchesi e pisani che se ne contesero a lungo il possesso. Intorno a quella primitiva torre si era costituita una modesta comunità. Si trovava più a monte della Torre Matilde, lontana dall'attuale confine della spiaggia, testimoniando in questo anche il progressivo ritrarsi del mare di fronte alla preponderante spiaggia viareggina.

Prese dunque vita, all'ombra di questa nuova torre la città di Viareggio. Formata da una prima comunità di soldati, mercanti, pescatori e marinai. In un cammino lento e faticoso all'inizio, poi più spedito; facilitato dalle imponenti e continue opere di bonifica a cui abbiamo accennato, e assecondando, in questo suo fiorire ambientale, altrettanto fiorenti attività marinare e cantieristiche che trovavano luogo nella sua darsena, la cui crescita s'accompagnava a quella dell'intera città, con la sua vita mondana che caratterizzerà i secoli seguenti. Fatta di nobili e principesse, di dorate spiagge e lussuose dimore; quindi strutture turistiche che s'apparavano a quel disincantato mondo.
L'altra città, dei viali a mare e dei lussuosi negozi, confezionata e abbellita alle ragioni turistiche, dall'originario nucleo stretto intorno alla Torre Matilde si stava sviluppando lungo l'arenile posto a ponente del canale Burlamacca. Sulle orme di quella villa Paolina qui sorta nel 1822, per volere di Paolina Bonaparte, sorella prediletta di Napoleone, che qui ha vissuto la sua breve stagione d’amore con il musicista Giovanni Pacini, tra il 1823 e il 1824, prima di ritirarsi, abbandonata dall’amato, a Firenze dove morì nel 1825, a soli quarantacinque anni, a Villa Montughi.

Il progetto era dell'architetto Giovanni Lazzarini di Lucca, e contemplava un impianto neoclassico, rimasto poi del tutto isolato nelle successive costruzioni viareggine improntate ad uno stile liberty. Appartato e aristocratico tempio di villeggiatura che vedeva nel tempo crescere intorno a sé, tra dimore di agiate famiglie borghesi, in gran parte qui venute dalla vicina città di Lucca, e altre più modeste e popolari costruzioni, la fama e il richiamo di quel luogo di villeggiatura, che ai primi stabilimenti balneari del 1828, il Nereo per gli uomini e il Dori per le donne come si conveniva in ossequio alla morale e alle usanze del tempo, vedrà poi affiancarsi più ampie strutture che sorte su palafitte allungate per alcune decine di metri sulle acque del mare progressivamente stavano andando ad occupare tutta la spiaggia tra la foce del canale e l'attuale piazza Mazzini.

La coeva ristrutturazione del porto e dell'intero sistema urbanistico, affidato nel 1820 dalla duchessa di Lucca Maria Luisa di Borbone a Lorenzo Nottolini, aveva confermato un ambiente urbano disposto in un regolare reticolo di vie perpendicolari che formavano quadrati isolati i cui terreni venivano ceduti, a condizioni particolarmente vantaggiose, a coloro che volessero edificare in questo nuovo ambiente.
Agli inizi del XIX secolo si giungerà alla realizzazione della prima darsena, a cui seguì circa un secolo dopo, il 28 settembre del 1913, la posa della prima pietra del nuovo porto di Viareggio in una suggestiva cerimonia alla presenza di Vittorio Emanuele III.
È questo il secolo d'oro della cantieristica viareggina: nel 1925 la flotta velica viareggina era stimata di uguale consistenza a quella genovese. Ancora oggi la più grande nave ospitata all'interno di un museo risulta costruita a Viareggio, varata nel 1891 e poi usata per il cabotaggio lungo le coste del Mediterraneo.
Acquistata nel 1952 dalla Marina Militare Italiana fu trasformata in nave scuola e come tale usata, con nome di Ebe, fino al 1958 quando fu messa in disarmo nel porto di La Spezia. Qui smontata, è stata successivamente trasportata a Milano dove ora si trova, riassemblata in un padiglione del Museo della Scienza e della Tecnica Leonardo da Vinci. È lunga 51,5 e alta 9 metri, a dimostrazione ed esempio di ingegnosità e intraprendenza di una tradizione cantieristica che ancora oggi pone la cittadina versiliese, per tecnologia e stile, ai vertici della produzione mondiale.

Questo sviluppo dell'industria navale sarà sempre parallelo a quella dell'intera cittadina versiliese, sorretta da una crescita, sia economica che demografica, così vorticosa da ricordare più una terra del nuovo mondo che non una zona dell'antica culla etrusca. Andando a sfogliare il Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana di Emanuele Repetti, pubblicato per la prima volta a fascicoli tra il 1833 e il 1846, alla voce "Comunità e vicaria di Viareggio" leggiamo che "nel 1744 questa contava anime 2279, e nel 1844 era salita a 14145!!!!" con i punti esclamativi, in originale, ben comprensibili se dando un'occhiata alle altre comunità e vicarie dell'allora Ducato di Lucca troviamo, per esempio, che quella di Camaiore passerà, nello stesso periodo, dai suoi 8616 a 15019 abitanti.

Città che continuerà nella sua impetuosa crescita fino al nostro secolo, separata nelle sue due anime, quella dei cantieri navali e quella delle lussuose vetrine e degli stabilimenti balneari, tra le quali a dividerle corre il canale Burlamacca, autentico simbolo di questa cittadina, e non solo perché Viareggio si è sviluppata intorno alla sua foce - tanto che anche la Torre Matilde, il monumento più antico del luogo, era sorta lungo il suo corso e a sua difesa - ma anche perché ha sempre rappresentato un punto di separazione, fisica e reale, tra le due parti, o meglio i due volti di Viareggio: l'uno proletario e industriale, l'altro borghese e turistico, permettendo la crescita e l'affermazione di entrambe le sue anime senza che mai, nel tempo e pur essendo l'una non più distante di qualche decina di metri dall'altra, giusto la larghezza del canale, fosse questa di un qualche pregiudizio od ostacolo all'altra.

Come in un certo modo anche rappresenta Uberto Bonetti nel 1930 disegnando il manifesto che l'anno successivo accompagnerà i carri di carnevale: Burlamacco e Ondina, le due maschere del carnevale, l'uno sul molo di darsena, dalla parte dei cantieri e delle darsene, popolare e burlesco, e l'altra sul molo di passeggiata, dalla parte degli stabilimenti balneari, frivola e mondana, che sul canale, percorrendo ognuno i rispettivi moli, avanzano in letizia e concordia stringendosi per mano.
Diversità ancora oggi avvertibile, tanto che il passaggio da una zona all'altra, attraverso la slanciata e aerea passerella mobile che le unisce alzandosi sopra il canale Burlamacca in prossimità della spiaggia, quasi assomiglia ad un volo, tra paesaggi distanti, che non un semplice spostamento in uno stesso ambiente.
E basti pensare alle differenze di clima in cui si passeggia sul piccolo molo della “Madonnina”, nel chiaroscuro riservato e introspettivo, rispetto all'altro della “Passeggiata”, luminio festoso e vociante. 

Con un segno / della mano additavi all'altra sponda / invisibile la tua patria vera” a volte ci si può ritrovare a pensare, andando con la mente a questi versi di Eugenio Montale, tratti da una sua celebre poesia, Dora Markus. Dal luminoso frastuono guardando alla quieta penombra stesa all'altro lato del canale, sotto la bianca sagoma della piccola statua della Madonna.

Arturo Lini - Tratto da Il pontile di Lido di Camaiore, edizioni Caleidoscopio, Massarosa (LU), 2009

martedì 8 marzo 2016

Itinerari fotografici versiliesi

Parlare della straordinaria fioritura e vitalità di ingegni ed estri artistici che popolano il territorio versiliese, di questo figli naturali o adottati, è discorso già ampiamente accettato e storicizzato, qualcosa che nell'aria sempre affiora quando si guarda a questa comunità, alle sue particolarità e caratteristiche, al centro di luci e attenzioni già all'inizio della stessa epoca moderna, come ha sottolineato una mostra allestita nell'estate 1999 nella villa La Versiliana a Marina di Pietrasanta, dal titolo: "D'Annunzio e la scoperta della Versilia", dove Cesare Garboli ricostruiva l'ambiente e l'atmosfera versiliese vissuta dal poeta abruzzese tra gli ultimi anni dell'Ottocento e il primo decennio del Novecento, individuando nelle stesse pagine dell'Alcyone la trasformazione della Versilia in luogo mitico, nei suoi aspetti fantastici ma anche semplici e quotidiani.
Alla nascita del mito certo ha giovato anche la presenza di Giacomo Puccini che giusto nello stesso periodo veniva a vivere sulle sponde del lago di Massaciuccoli, con le sue melodie, i pittori che intorno a lui si strinsero nel Club della Bohème, che già fanno parte della storia come della leggenda di questa terra.
Terra che oltre gli immediati beni di consumo, quali le spiagge marine con i loro insediamenti turistici, offre oggi uno straordinario campionario di tesori architettonici e artistici, di stratificazioni storiche e ambientali, delle quali è buon esempio questa parte sud del territorio versiliese identificabile nel Comune di Masssarosa del quale Bargecchia è parte. Tesori che spesso sfuggono a una prima visita, nell'ampio catalogo che la Versilia può offrire, ma che pure hanno un loro spessore e valore che travalica i confini e i metri della territorialità: e tra questi mi è semplice citare i due polittici di epoca rinascimentale, due pale di altare del XV e XVI secolo, qui a Bargecchia custoditi nella chiesa di San Martino.

Perché io credo che la bellezza si respiri, e l'esserne circondato conferisca già un abito mentale, un metro di valutazione delle cose, che dona grazia e armonia alle proprie espressioni artistiche, quando queste ci fanno il dono di apparire in fondo all'animo. Qualcosa che ci si ritrova naturalmente fra le mani, che poi il tempo, la passione, il rispetto di quella prima vocazione possono ampliare fino a risultati eccelsi, eccezionali nel proprio specifico ambito, come già è testimone questa angolo di terra: quasi un borgo steso sulle colline eppure capace di offrire al mondo intero talenti e personalità in quello apprezzate e conosciute.
E forse Bargecchia ben si presta, nella sua particolarità geografica, a farsi emblema di questa commistione che racchiude la bellezza della Versilia: visitata dai riflessi e sapori marini, quando dal mare s'alzano a percorrere queste colline, così come dai venti di nord-est che scendono a volte dalle cime delle Apuane con il loro sapore di pascoli o di innevate cime.
La nostra mostra fotografica chiama a raccolta dieci fotografi, noti e apprezzati in questa loro professione, invitati a esprimersi su ambienti e culture di questo territorio, per sottolinearne alcuni suoi aspetti, o usandolo come terreno o ispirazione del proprio discorso e bagaglio artistico. Discorso artistico al quale cercherò, con queste mie parole, di offrire una pur minima cornice capace di accennare a quel mondo da cui sono tratte le loro immagini.

Emiro Albiani - Ammirato nel mondo intero per la capacità creativa e la maestria delle proprie esecuzioni l'artigianato italiano conserva ancora oggi un tratto distintivo: incontro di laboriosità e sapienze antiche e rurali, se non con la creatività propria di questa terra, con quell'arte di arrangiarci, che è espressione e sunto di tante virtù.
Anche la gastronomia è parte di questo mondo. Arte lieve e leggera, che per altre vie ci conduce alla semplicità del vivere, ai suoi fondamentali dettami. Il poeta Antonio Porta, scomparso a Roma nel 1989, in una sua celebre apparizione televisiva dove si esibiva in una lettura di poesie organizzò questa sua performance in un forno: lui vestito di nero davanti al leggio su cui posavano le poesie, mentre alle spalle il fornaio, nel bianco indumento, s'accudiva al proprio delicato lavoro, entrambi, in quella comune scena, attenti a sottolineare le semplici architetture, verbali o alimentari, del vivere. Nelle foto di Emiro Albiani questa antica sapienza artigianale torna a mostrarsi nella sua naturalezza, quasi che le braccia e le mani vivano slegate dal corpo e dalla sua intenzionalità, andando a ripetere gesti e azioni che appartengono più alla memoria del sangue, e delle generazioni che lo hanno composto, che non a quella della mente o dell'io.

Belli Renzo - sembra aver trovato nel volto umano un proprio personale mappamondo, non solo in questa breve panoramica collinare, che può anche essere letta come un riassunto, o meglio un accenno, della sua produzione artistica, ma per un certo suo metodo e abitudine di avvicinarsi all'oggetto fotografato.
Anche se l'origine di molti dei suoi reportàges prende avvio da viaggi intrapresi per il mondo intero, successivamente oggetto di stampe e volumi, in questo suo attuale appuntamento l'obbiettivo guarda alle strade e gli angoli di questa nostra terra. Sono volti che immaginiamo colti nella loro quotidianeità e spontaneità, che poi, grazie alla fotografia, sembrano bucare il velo dei giorni, dell'anonimato in cui scorrono e si ripetono i gesti. Indossano così, nel bianco e nero fotografico, l'abito della straordinarietà, diventando paladini e indice degli umani accadimenti.
I volti, i gesti, che accompagnano gli atti dei suoi personaggi, hanno una sorta di fierezza, emanano il sapore dell'ottimismo, di chi conosce nel lavoro e nella qualità del proprio fare una sorta di forza che possa muovere e cambiare in meglio il mondo. Sono eroi e personaggi positivi, leve del mondo, che noi vogliamo anche interpretare come un omaggio a questa laboriosa e intraprendente terra.

Cei Enzo - Le cave di marmo di Carrara rappresentano un momento centrale nell'ambito della produzione artistica di Enzo Cei, tanto da essere definito, in qualche pagina di critica fotografica, il fotografo dei cavatori e di essere autore di pregiate edizioni dedicate ai cavatori di marmo. Per introdurci all'ambiente scelto dal fotografo pisano, quale teatro delle sue immagini, userò queste parole di Riccardo Bacchelli, tratte dai suoi ricordi dei tempi di vacanza trascorsi a Forte dei Marmi: "Dalla parte di terra, la spianata era aperta sui campi e sopra ampia veduta dell'alpe da cui provenivano i marmi e quella strada, che la tradizione voleva aperta da Michelangelo Buonarrotti per carreggiarvi al mare i marmi da servire alla sepoltura di papa Giulio" e già in questi nomi possiamo cogliere la fama delle bianche pareti delle Alpi Apuane, rimasta immutata dal tempo in cui il divin scultore personalmente andava a scegliersi i marmi per le proprie opere, cercando poi di tracciarne le rotte per il faticoso trasporto nella città fiorentina.
In Cei è il bianco, la purezza del colore rivissuta nella sua piena naturalezza, a dettare il racconto; il tessuto delle luci che sottolineano la possenza dello sforzo umano, i loro atti congelati in pose, quasi maschere di antiche tragedie greche: umanissimi attori imbellettati della bianca polvere, sulla scena di un gigantesco olimpico teatro, di cui siano spettatori anche gli dei.

Cerri Giancarlo - Vista dal cielo, da qualche perduto astro o satellite, la spiaggia versiliese, con i suoi pontili e moli, può forse apparire come uno scarno pettine, a cui si lisciano infrangendosi nei suoi radi denti le onde del mare. Le foto di Cerri ci portano sul pontile di Lido di Camaiore, insieme a quello di Marina di Pietrasanta ultimo venuto in questa particolare e suggestiva storia versiliese, mostrandocelo ora nella sinuosità delle sue forme a cui si sposa la rigida solidità dei pali di sostegno. Quasi in quella promenade, a cui la foto ci invita, sembra di percorrere un luogo sacrale, separato dal mondo di tutti i giorni attraverso il magico percorso di un pontile steso dal viale a mare della cittadina fino alla vista dell'orizzonte, con la fluidità dell'acqua che fa contrappeso alla pesantezza della terra, per trasformarla in un'aerea leggerezza di vapori e di brezze. Fino alla rotonda finale, l'ossatura di travi, enorme scheletro che sostiene la grande veranda in legno, con quell'impressione di fasto coloniale, e la memoria che ci riporta alla mente i primi stabilimenti balneari, il Nereo, il Dori di Viareggio, che si spingevano sopra l'acqua del mare sostenuti da palafitte in legno.

Cirri Giancarlo - Ci trasporta al centro di un arenile le cui spiagge e luoghi sono state celebrate da artisti e da uomini di stato, da poeti e letterati: da Viareggio a Forte dei Marmi, da Marina di Pietrasanta a Torre del Lago Puccini, oltre le quali continuano le pinete, le campagne, paesi e colline ricche di tradizioni culturali antiche quanto l'uomo, pievi romaniche con i colli dei campanili che sbucano dal manto verdeargento, ville storiche con le loro memorie di re e regine che le visitarono, e infine le montagne Apuane che sembrano fare un recinto e protezione a questo patrimonio.
Un omaggio alla Versilia espresso attraverso immagini che sono quasi simbolo di questa terra, perlomeno dei suoi più ricorrenti segni e icone turistiche: il gabbiano, il pescatore, un remo che sfiora l'acqua, un aliante sopra quello sospeso. Nelle foto di Cirri c'è però un altro elemento che queste poche righe ci permettono solo di accennare: lo spazio, nel quale la fluidità dei corpi, il battito delle ali, lo spostarsi degli elementi sembrano quasi dettati da universali partiture a rappresentare non se stessi ma quell'enorme vuoto che rende possibile il loro muoversi, il loro stesso esistere.

Gori Carlo - Albero della civiltà, è stato definito l'ulivo, la cui presenza subito definisce i confini dell'area mediterranea. Importato dalla Grecia viene all'inizio coltivato in Sicilia. Successivamente la sua produzione si espande in altre regioni italiane, tra le quali l'Etruria, dove la produzione dell'olio è documentata già dal VI secolo a.C. Nelle colline versiliesi la sua coltivazione e commercializzazione è presente già nell'alto Medioevo, per merito di diversi ordini monastici, quando insieme a quella della vite rappresentava una delle principali produzioni agricole. Nella nostra zona massarosese, l'inizio della sua cultura, in zone prima ricoperte da boschi di querce e lecci, è fatta coincidere con la fondazione di un convento di Benedettini avvenuta a Quiesa nel 1025. Le foto di Carlo Gori ci accompagnano alla Colombaia, in Piano del Quercione, in un frantoio adesso chiuso, dove la frangitura delle olive seguiva un percorso ancora artigianale, manuale, come vogliono indicare le mani raccolte intorno ai preziosi frutti. In effetti, paragonando questo ai moderni frantoi, si respira nelle foto lo svolgersi cerimoniale dell'evento, quell'aria di silenzio, quasi claustrale, dove Gori compie una specie di sinestesia dove la raffigurazione dello spazio di un ambiente riesce a richiamare qualcosa, il silenzio che lo abitava, la cui percezione apparterrebbe a un altro senso.

Alessandro Lazzerini - Industria di punta, questa della cantieristica viareggina, degna di primeggiare nel mondo intero, per soluzioni e tecnologie d'avanguardia capaci di affrontare il futuro, ma a noi tanto vicina e cara anche per tutt'altro sentiero che viene da un passato popolato dai ricordi di Lorenzo Viani, nato a Viareggio nel 1882, in quella parte della marina viareggina, la Vecchia Darsena, dove erano sorti, e ancora all'epoca sorgevano a ritmo vertiginoso, gli scali e i primi cantieri navali, popolati di maestri d'ascia e di calafati, fabbri, carpentieri, segantini, funai e velai; industria favorita dalla presenza di estese pinete, situate immediatamente alle spalle della costa.
Il mondo che oggi Lazzerini ci presenta è indubbiamente diverso, mutato, ma i volti che armeggiano con strumenti e materiali assai più moderni di quelli di ieri hanno la stessa solidità, nelle braccia e gesti che sembrano assecondarli, di quelli rinvenibili nei disegni del maestro viareggino e di altri pittori versiliesi, cantori con i loro colori di quel mondo. Volti e atti, ora nelle fotografie di Lazzerini, guidati dalla stessa maestria, che è anche onestà e ordine morale, sottolineata nei gesti attenti e misurati.

Giovanni Nardini - L'alchemico mondo delle botteghe dei fonditori è invece presentato da Giovanni Nardini, attraverso le sue foto dove l'intento documentaristico s'accompagna ai tagli netti delle luci, dei piani, che ben sottolineano il pathos che circonda le diverse operazioni, quella sorta di cerimonia religiosa o sacrale che ha come proprio fine lo sbocciare della forma nuova. Le fonderie sono quelle di Pietrasanta, conosciute e frequentate dai più importanti scultori italiani e stranieri, al pari dei laboratori artigianali del marmo, attività di grande professionalità che rendono famosa la cittadina versiliese nel mondo.
A questo mondo Nardini ha dedicato un libro, tra i diversi suoi pubblicati che spesso affrontano e si soffermano su attività lavorative dell'uomo. Ma guardando adesso a queste foto, esposte in questa mostra, ritrovo in esse qualcosa che ricorda l'impianto pittorico del Caravaggio, ispiratore peraltro di alcune scenografie e regie cinematografiche. Quell'insistenza sui tagli d'una luce netta che separa la scena in due distinti campi: chiaro e scuro, quasi primordiali simbologie d'una qualche dualità che abita la scena se non l'animo dei suoi protagonisti; quell'irrompere dal vano d'una finestra di una luce che sembra appartenere ad altre orbite alle quali l'uomo ugualmente partecipa, consapevole o meno.

Amerigo Pelosini - Presenta foto dedicate all'ambiente lacustre del lago di Massaciuccoli, e al suo eccezionale habitat, parte di una delle più importanti zone umide del bacino mediterraneo, inclusa nelle Aree umide italiane di importanza internazionale, e tra le Zone a protezione speciale nonché tra i Siti di importanza regionale relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali della flora e della fauna selvatica. Temi e paesaggi più volte percorsi nei suoi itinerari fotografici ed editoriali, fino alla minuziosa indagine di qualche elemento incontrato nelle sue passeggiate: un vecchio tronco di albero la cui superficie diventa mappa di infinite costellazioni; oppure la grazia di un'esile cannella che sembra scrivere la propria storia sulla verde mobile pagina del lago.
Dove seguendo una predisposizione, una vocazione tutta interiore, ravvisabile, seppur a volte in maniera embrionale, in tutta la sua opera fotografica, anche in quella di più stretta osservanza del dato paesaggistico, riesce sempre a cogliere nelle scene qualcosa che travalica la loro mera rappresentazione: mostrandoci l'ambiente naturale come scena autonoma, con tutte le sue terrestri bellezze e suggestioni, e ugualmente luogo e simbolo di un più vasto respiro e ordito.

Sacchetti Enrico - Con Sacchetti entriamo in uno degli ultimi paradisi terrestri, capaci ancora oggi di conservare la loro primitiva disposizione e conformazione ambientale: quasi immutata nella costa tra Torre del Lago e la foce del fiume Arno. Area salvaguardata in epoche passate dalla persistenza della malaria che rendeva inabitabile la zona, nonché dalla presenza di terreni di proprietà della famiglia fiorentina dei Medici e da questa destinati a riserva di caccia. Successivamente furono i granduchi di Toscana a conservarne questa destinazione, infine i Savoia, divenuti re d'Italia, scelsero questo luogo come sede di vacanza, destinazione poi trasferita alla presidenza della repubblica italiana. A partire dal 1979, l'area è infine diventata parte del parco regionale di Migliarino San Rossore Massaciuccoli.
Sacchetti ha ben corrisposto questa natura del suo 'soggetto' quasi dando nelle sue foto una fisica consistenza alla caparbia tenacia degli elementi riusciti a sopravvivere alle trame delle civiltà e all'asprezza dell'ambiente, quasi come esseri umani attaccati alla proprie profonde radici. E conoscendolo personalmente devo dire che in queste foto riconosco una certa parte del suo carattere: scabro, schietto, abitato da una certa resistenza al tempo e ai suoi dettami.

Arturo Lini, giugno 2011 - Itinerari fotografici versiliesi: dalle cime delle Apuane alla foce del Serchio, testo in catalogo alla mostra Bargecchia terra di Versilia, Bargecchia (LU), stampa Grafiche Aurora, Viareggio, luglio 2011