venerdì 4 marzo 2016

L'arte incisoria di Donata Carlucci

Presentazione alla mostra Donata Carlucci, Villa Gori, Stiava (LU), luglio 1998.

L’incisione su metallo, ottenuta per mezzo dell’acido mordente, ha preso il nome di acquaforte dal termine latino aqua fortis, antica denominazione dell’acido nitrico. Già usato nel Medio Evo, per incidere fregi e decorazioni di armi e armature, il processo, come pratica ed espressione artistica, prende vita nei paesi di lingua tedesca agli inizi del XVI secolo, e quasi contemporaneamente la stessa tecnica si sviluppava anche in Italia, nell’ambito della bottega di Girolamo Francesco Maria Mazzola, detto il Parmigianino (Parma,1503 – Casalmaggiore, 1540) al quale si può attribuire, in Italia, la creazione dei primi disegni all’acquaforte.

Nel 600 l’uso dell’acquaforte continua ad ampliarsi; diversi artisti ne fanno un momento centrale del proprio percorso, quali il fiorentino Antonio Tempesta detto il Tempestino (Firenze, 1555 – Roma, 1630) o il napoletano Salvator Rosa (Napoli, 1615–Roma, 1673). Ed è in questo secolo che se ne raggiunge il culmine quanto a potenza evocativa e artistica, con Rembrandt van Rijn (Leida, 1606 – Amsterdam, 1669) massimo maestro dell’acquaforte, dove arte e tecnica raggiungono risultati ed effetti particolarissimi, impossibili ad ottenersi col disegno puro e semplice.

Nobiltà e splendore di una pratica che altri artisti poi promulgarono: Giambattista (o Giovanni Battista o Zuan Batista) Tiepolo (Venezia,1696 – Madrid, 1770), o Giovanni Antonio Canal, meglio conosciuto come il Canaletto (Venezia, 1697 - 1768) al quale possiamo accumunare tutta la scuola veneziana del 700. Quindi Giovanni Battista Piranesi detto anche Giambattista (Mogliano Veneto, 1720 – Roma, 1778) con le vedute di Roma. Altissimi poi i risultati raggiunti da Francisco José de Goya y Lucientes (Fuendetodos, 1746 – Bordeaux, 1828) nelle sue drammatiche composizioni: Capricci e Disastri della guerra.
Ed è sempre nel Settecento che prende campo una divisione dell’operazione: l’artista prepara il disegno che poi artigiani specializzati riproducono su lastra per la definitiva elaborazione all’acquaforte. Le stampe venivano infatti contraddistinte dalla doppia firma del disegnatore e dell’incisore.

Nell’800 l’apparire della litografia, di più rapida esecuzione, comincia a segnare i limiti dello sviluppo dell’incisione ad acquaforte, nonostante il fiorire di eccezionali espressioni: come in Giovanni Fattori (Livorno, 1825 – Firenze, 1908), in Telemaco Signorini (Firenze, 1835 – 1901) poi e ancora nel gruppo degli espressionisti; quindi Edgar Degas (Parigi, 1834 – 1917), Édouard Manet (Parigi, 1832 – 1883), Eugène Delacroix (Saint-Maurice, 1798 – Parigi, 1863), su su fino ai maestri del ventesimo secolo tra i quali Pablo Picasso (Málaga, 1881– Mougins, 1973), Marc Chagall (Vitebsk, 1887 – Saint-Paul de Vence, 1985), Renzo Vespignani (Roma, 1924 – 2001), Renato Guttuso, all'anagrafe Aldo Renato (Bagheria, 1911 – Roma, 1987), e in particolar modo Giorgio Morandi (Bologna, 1890 – 1964) la cui vena di acquafortista è unanimamente riconosciuta come uno dei massimi valori dell’arte moderna.

Venendo ai giorni nostri in Donata Carlucci subito balza agli occhi una particolarità: che essa non opera nell’incisione come in una tecnica secondaria o parallela a un’altra di pittura, no, non c’è nessun'altra ricerca, nessun altro modo di operare se non questo persistere - questa maniacalità come lei stessa l’ha definita - di darsi totalmente a questo mezzo espressivo, ulteriormente impreziosito dall’uso dell’acquatinta.
Il lavoro di Donata comincia nell’osservazione della natura, mediata attraverso una foto, per fermare i suoi soggetti, fissarli in un disegno che successivamente verrà riportato sulla lastra di rame. Definito poi lo spessore e il valore delle linee attraverso l’operazione della morsura, immersa la lastra in una baccinella ricolma d’acido, questa è ulteriormente trattata, attraverso successive stesure applicate con un pennello, di resine che la ricoprono, in una serie di altre morsure dove Donata cerca la ripartizione e rappresentazione del reale in una scala di grigi, una gamma tonale che riesca a accogliere ed evocare la luce dei diversi colori naturali. E in questo procedimento, nel suo laborioso svolgersi, e nelle pratiche e variazioni di metodo che a volte arricchiscono, accompagnandolo e assecondandolo, il suo lavoro, lei stessa si definisce una colorista.

Ora osservandola così immersa in questa sua pratica artistica non potevo fare a meno di notare una similitudine, tra lei che mi parlava dei suoi procedimenti, del tempo in cui l’acido corrode e definisce il segno, e il suo stesso comportamento dove le parole, gli atti, i gesti, lo spostarsi nella stanza a offrire una tazza di tè, altro non ripetevano che una sospensione, una rifrazione e un rinvio delle sue intenzioni, attitudini, abitudini e profondità caratteriali; come stessero sospese in una qualche “morsura dell’io” in attesa di affiorare alla vita dei giorni, a quella impreziositi e nobilitati dalla quieta attesa nella vitrea purezza del liquido.
Il “persistere di un io” potremmo nominare l’ombroso amore che l’avvicina all’incisione, la sua pratica quasi alchemica, senza per questo doverci necessariamente legare a una ragione di causa-effetto tra il suo modo di essere e quello di lavorare e creare, cercando cioè nei motivi dell’animo le ragioni e le spiegazioni dei procedimenti, scelte e vocazioni che detteranno la partitura artistica. In realtà l’arte sopravanza l’animo umano, lo comprende, ne fa una propria voce, a volte custodendolo, a volte rifiutandolo, ma mai è da questo determinata nel proprio svolgimento e percorso.

Questa che vedete è la prima mostra importante di Donata. Circa 70 opere che hanno per soggetto la terra dove lei stessa vive, chiamandola “le mie radici”. Opere nate nella sua casa, poco oltre l’abitato di Quiesa, a metà strada tra Lucca e Viareggio, dove un tempo sorgeva l’antico porto della Piaggetta, e ora si alza villa Ginori, con il suo strascico di artisti e melodie pucciniane. Circondata da canali e canneti che ora tornano nelle immagini delle opere con la festosità o la malinconia che accompagna e sottolinea la vitalità e la fioritura dell’ambiente che la circonda.

Dalle finestre della sua casa, aperte ai quattro lati sul paesaggio intorno, mi indicava la festa della natura intorno e ugualmente, e al contrario, quella che pare in lei essere vissuta come una propria sconfitta: la lenta agonia di un fosso, di un canale, l’arrendersi e il ritirarsi della vita alla presenza e alle abitudini dell’uomo, dei suoi disordini umani e urbanistici.
Anche questo suo vivere quasi in simbiosi con l’ambiente, soffrendone per il degrado o gioiendone per la bellezza, è un aspetto centrale della sua arte. La morsura dei segni, la loro sedimentazione, persistenza e testimonianza di una partecipazione alle sorti dell’ambiente, di un amore che non si arrende, che non vuole accettare la profanazione della propria terra.
“È una battaglia che conduco da sola”, dice sconsolata; quando accogliendo un animale sperso o abbandonato - "ma ora mi sono imposta un numero chiuso di 7 gatti e due cani”, ripete - quando recandosi in Comune a Massarosa a denunciare il degrado ambientale che la circonda.

Questa è l’introduzione alla mostra che andiamo ad aprire: di un’artista i cui frutti si fanno ugualmente espressione di un calibrato mestiere e di un amore per la natura, di una storia personale e di quella di una terra, di nobili sentimenti e di delicati equilibri che nascono nel fondo di un animo come nel volgere e nel trascorrere delle stagioni in un lembo di terra così pregiato e unico.
Partecipando con passione all’infinita storia che ci accompagna ogni giorno, non solo tra le mura domestiche ma anche oltre i vetri e i riquadri delle finestre, per chi non voglia chiuderle e abbia ancora la forza di guardare. Che un segno, impresso su una lastra di rame, viene a ricordarci: un caparbio amore che possa – o almeno questo tenti - preservarci entrambi.

Arturo Lini

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