sabato 12 marzo 2016

Porti moli e pontili nella storia versiliese

Aprendo la pagina di qualsiasi sito delle nostre amministrazioni comunali - intendendo per nostre quelle i cui confini insistono sulle spiagge versiliesi - balza subito agli occhi come tra le testimonianze più preziose del proprio territorio che esse ci mostrano - chiese o pievi, antichi manieri o bellezze naturali - ci siano i pontili, i porti, i moli. Alcuni sono recentissimi, altri riportano indietro il tempo a quando queste spiagge erano luogo di lavoro, di fatica, e la loro presenza oltre ad assicurare industrie e attività lavorative era sufficiente perché intorno prendesse vita una comunità, un villaggio, che il tempo poi trasformava in realtà sempre più ampie.
Guardando oggi a questi stessi luoghi sospesi nel tepore dei giorni, vivendo in essi il quieto trascorrere del tempo, risulta difficile pensare che per buona parte della loro storia i nostri antenati hanno dovuto lottare contro un ambiente ostile, in gran parte inabitabile, improduttivo, cosparso di macchie e boschi quasi impenetrabili, di acquitrini e paludi. In questa lotta tra l'uomo e l'ambiente un approdo, una foce utilizzabile allo scalo di navi e merci ha spesso rappresentato l'inizio di un significativo cambio di qualità della vita: un braccio di legni e travi che avanzava sopra le acque del mare era il segno di una trasformazione sociale e ambientale, quasi il segno di una nuova civiltà.

Il villaggio etrusco di San Rocchino
Già nell' VIII secolo a.C limitate e circoscritte opere di bonifica del terreno erano state portate a termine dalle popolazioni etrusche che vivevano nella piana costiera tra la foce del fiume Magra e quella dell'Arno. Assecondavano in questa usanza un loro antico costume: di realizzare, dove concesso dagli elementi naturali e ambientali, opere e interventi di ingegneria idraulica per migliorare e rendere più favorevoli la fertilità dei terreni e le condizioni dell'ambiente che li ospitava.
Il villaggio etrusco di San Rocchino, posto in un terreno di confine tra i comuni di Massarosa e Viareggio, ne è testimonianza. Sorgeva in un'area formata di terreni acquitrinosi, poi bonificata attraverso la posa di legname e fascine che davano una qualche solidità a un modesto insediamento fatto di capanne in materiale deperibile, di forma quadrata o rettangolare, il cui pavimento era d'argilla. Serviva da scalo marittimo ai traffici di merci e persone lungo le coste tirreniche che ebbero il loro momento di maggiore attività nel VI sec. a.C.
Fu poi distrutto intorno al II secolo a.C., e quindi abbandonato, nella lunga guerra che qui ebbe luogo tra romani e liguri per il controllo di questa parte di territorio.

Le bonifiche romane
Anche i romani s'adoperarono a opere di bonifica. Vaste e importanti, come quelle attribuite a L. Papirio, da alcuni identificato in un funzionario della Roma imperiale, vissuto molto probabilmente a Lucca o a Pisa, a cui si devono le Fosse Papiriane, un insieme di opere idrauliche costituite da un reticolo di fosse condotte dalle paludi interne versiliesi alla costa marina, utili al deflusso in mare delle acque piovani e stagnanti, impedite al loro normale scorrere dalla depressione dei terreni e da un cordone di dune e tomboli venutosi nei tempi preistorici a formare, nel lento moto delle acque e delle correnti.
Opere queste necessarie, oltre al risanamento del territorio, anche alla manutenzione delle vie terrestri e marine, destinate ai commerci e agli spostamenti di truppe ed eserciti che qui, provenienti da Roma o da Pisa, transitavano verso Luni e le zone nord-occidentali della penisola, nonché alla piena funzionalità di alcuni scali interni alle acque del Lago di Massaciuccoli.

L'antico porto di Motrone
Tramontato l'impero romano, dopo il susseguirsi delle invasioni barbariche con la loro scia di devastazioni e distruzioni di tutto quello che la civiltà romana aveva progettato ed edificato, bisogna risalire all'epoca medievale per trovare notizia di un porto attivo lungo il territorio versiliese: è il porto di Motrone del quale abbiamo prime notizie intorno all'anno mille. Era situato alla foce dell'antico fiume Sala, posta ad alcuni chilometri dalla cittadina di Pietrasanta.
La sua attività era protetta da un fortino militare che ospitava una modesta guarnigione qui inviata dalla Repubblica di Lucca alla quale apparteneva quello scalo marittimo, usato anche dalla Signoria fiorentina, che evitava ai governi lucchesi l'obbligo di usare quello pisano, con il suo balzello di dazi e dogane.

Serviva da scalo alle navigazioni costiere tra Marsiglia, Genova, Piombino, Roma: almeno a imbarcazioni leggere, fino ai trenta metri di lunghezza. Ogni anno andavano e venivano a quell'approdo circa 150 navi, che attraccavano in prossimità della riva, mostrando in questo movimento una discreta vitalità, anche considerando la moltitudine delle barche più piccole che lo frequentavano. Rimase in attività fino ai primi decenni del XVI secolo, quando divenuto proprietà dei Medici fu da questi - che già disponevano dello scalo pisano - progressivamente abbandonato, lasciandolo esposto all'inevitabile interramento che ne segnò il definitivo tramonto.

Il porto di Viareggio
Del resto la Repubblica di Lucca da tempo aveva posto le proprie attenzioni ad uno scalo più vicino e più funzionale ai propri traffici, identificando in quello di Viareggio il porto idoneo ai propri scopi. Per facilitare la sua realizzazione si era impegnata, già a partire dalla seconda metà del XV secolo, in una serie di progetti per bonificare la spiaggia viareggina e l'intero entroterra che dai piedi del monte Quiesa, suo naturale davanzale alla costa tirrenica, arrivava alla costa versiliese. Nel 1488 viene costituita una società, la Maona, associazione di cittadini incaricata di procedere a tutti quegli interventi ritenuti necessari all'attuazione dell'opera di bonifica.

Interventi che si ripeterono nel corso dei secoli, affidati a eminenti scienziati e studiosi, con esiti alterni, fino ai progetti e all'opera del matematico veneto Bernardino Zendrini che intorno alla metà del XVIII secolo, con il drenaggio delle acque paludose e l'abbattimento della macchia marittima circostante l'allora piccolo abitato di Viareggio, iniziò quell'opera di riassestamento e bonifica del territorio che doveva poi condurre  alla costituzione della prosperosa cittadina di epoca moderna.
Il primo segno di questa volontà del governo lucchese era stata la costruzione dell'attuale Torre Matilde, terminata nel 1534, che veniva giusto a sostituire una torre di avvistamento e difesa alzata nel 1172 a segno di dominio e tutela sopra questa sua marina, spesso luogo di scontri e battaglie tra gli eserciti lucchesi e pisani che se ne contesero a lungo il possesso. Intorno a quella primitiva torre si era costituita una modesta comunità. Si trovava più a monte della Torre Matilde, lontana dall'attuale confine della spiaggia, testimoniando in questo anche il progressivo ritrarsi del mare di fronte alla preponderante spiaggia viareggina.

Prese dunque vita, all'ombra di questa nuova torre la città di Viareggio. Formata da una prima comunità di soldati, mercanti, pescatori e marinai. In un cammino lento e faticoso all'inizio, poi più spedito; facilitato dalle imponenti e continue opere di bonifica a cui abbiamo accennato, e assecondando, in questo suo fiorire ambientale, altrettanto fiorenti attività marinare e cantieristiche che trovavano luogo nella sua darsena, la cui crescita s'accompagnava a quella dell'intera città, con la sua vita mondana che caratterizzerà i secoli seguenti. Fatta di nobili e principesse, di dorate spiagge e lussuose dimore; quindi strutture turistiche che s'apparavano a quel disincantato mondo.
L'altra città, dei viali a mare e dei lussuosi negozi, confezionata e abbellita alle ragioni turistiche, dall'originario nucleo stretto intorno alla Torre Matilde si stava sviluppando lungo l'arenile posto a ponente del canale Burlamacca. Sulle orme di quella villa Paolina qui sorta nel 1822, per volere di Paolina Bonaparte, sorella prediletta di Napoleone, che qui ha vissuto la sua breve stagione d’amore con il musicista Giovanni Pacini, tra il 1823 e il 1824, prima di ritirarsi, abbandonata dall’amato, a Firenze dove morì nel 1825, a soli quarantacinque anni, a Villa Montughi.

Il progetto era dell'architetto Giovanni Lazzarini di Lucca, e contemplava un impianto neoclassico, rimasto poi del tutto isolato nelle successive costruzioni viareggine improntate ad uno stile liberty. Appartato e aristocratico tempio di villeggiatura che vedeva nel tempo crescere intorno a sé, tra dimore di agiate famiglie borghesi, in gran parte qui venute dalla vicina città di Lucca, e altre più modeste e popolari costruzioni, la fama e il richiamo di quel luogo di villeggiatura, che ai primi stabilimenti balneari del 1828, il Nereo per gli uomini e il Dori per le donne come si conveniva in ossequio alla morale e alle usanze del tempo, vedrà poi affiancarsi più ampie strutture che sorte su palafitte allungate per alcune decine di metri sulle acque del mare progressivamente stavano andando ad occupare tutta la spiaggia tra la foce del canale e l'attuale piazza Mazzini.

La coeva ristrutturazione del porto e dell'intero sistema urbanistico, affidato nel 1820 dalla duchessa di Lucca Maria Luisa di Borbone a Lorenzo Nottolini, aveva confermato un ambiente urbano disposto in un regolare reticolo di vie perpendicolari che formavano quadrati isolati i cui terreni venivano ceduti, a condizioni particolarmente vantaggiose, a coloro che volessero edificare in questo nuovo ambiente.
Agli inizi del XIX secolo si giungerà alla realizzazione della prima darsena, a cui seguì circa un secolo dopo, il 28 settembre del 1913, la posa della prima pietra del nuovo porto di Viareggio in una suggestiva cerimonia alla presenza di Vittorio Emanuele III.
È questo il secolo d'oro della cantieristica viareggina: nel 1925 la flotta velica viareggina era stimata di uguale consistenza a quella genovese. Ancora oggi la più grande nave ospitata all'interno di un museo risulta costruita a Viareggio, varata nel 1891 e poi usata per il cabotaggio lungo le coste del Mediterraneo.
Acquistata nel 1952 dalla Marina Militare Italiana fu trasformata in nave scuola e come tale usata, con nome di Ebe, fino al 1958 quando fu messa in disarmo nel porto di La Spezia. Qui smontata, è stata successivamente trasportata a Milano dove ora si trova, riassemblata in un padiglione del Museo della Scienza e della Tecnica Leonardo da Vinci. È lunga 51,5 e alta 9 metri, a dimostrazione ed esempio di ingegnosità e intraprendenza di una tradizione cantieristica che ancora oggi pone la cittadina versiliese, per tecnologia e stile, ai vertici della produzione mondiale.

Questo sviluppo dell'industria navale sarà sempre parallelo a quella dell'intera cittadina versiliese, sorretta da una crescita, sia economica che demografica, così vorticosa da ricordare più una terra del nuovo mondo che non una zona dell'antica culla etrusca. Andando a sfogliare il Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana di Emanuele Repetti, pubblicato per la prima volta a fascicoli tra il 1833 e il 1846, alla voce "Comunità e vicaria di Viareggio" leggiamo che "nel 1744 questa contava anime 2279, e nel 1844 era salita a 14145!!!!" con i punti esclamativi, in originale, ben comprensibili se dando un'occhiata alle altre comunità e vicarie dell'allora Ducato di Lucca troviamo, per esempio, che quella di Camaiore passerà, nello stesso periodo, dai suoi 8616 a 15019 abitanti.

Città che continuerà nella sua impetuosa crescita fino al nostro secolo, separata nelle sue due anime, quella dei cantieri navali e quella delle lussuose vetrine e degli stabilimenti balneari, tra le quali a dividerle corre il canale Burlamacca, autentico simbolo di questa cittadina, e non solo perché Viareggio si è sviluppata intorno alla sua foce - tanto che anche la Torre Matilde, il monumento più antico del luogo, era sorta lungo il suo corso e a sua difesa - ma anche perché ha sempre rappresentato un punto di separazione, fisica e reale, tra le due parti, o meglio i due volti di Viareggio: l'uno proletario e industriale, l'altro borghese e turistico, permettendo la crescita e l'affermazione di entrambe le sue anime senza che mai, nel tempo e pur essendo l'una non più distante di qualche decina di metri dall'altra, giusto la larghezza del canale, fosse questa di un qualche pregiudizio od ostacolo all'altra.

Come in un certo modo anche rappresenta Uberto Bonetti nel 1930 disegnando il manifesto che l'anno successivo accompagnerà i carri di carnevale: Burlamacco e Ondina, le due maschere del carnevale, l'uno sul molo di darsena, dalla parte dei cantieri e delle darsene, popolare e burlesco, e l'altra sul molo di passeggiata, dalla parte degli stabilimenti balneari, frivola e mondana, che sul canale, percorrendo ognuno i rispettivi moli, avanzano in letizia e concordia stringendosi per mano.
Diversità ancora oggi avvertibile, tanto che il passaggio da una zona all'altra, attraverso la slanciata e aerea passerella mobile che le unisce alzandosi sopra il canale Burlamacca in prossimità della spiaggia, quasi assomiglia ad un volo, tra paesaggi distanti, che non un semplice spostamento in uno stesso ambiente.
E basti pensare alle differenze di clima in cui si passeggia sul piccolo molo della “Madonnina”, nel chiaroscuro riservato e introspettivo, rispetto all'altro della “Passeggiata”, luminio festoso e vociante. 

Con un segno / della mano additavi all'altra sponda / invisibile la tua patria vera” a volte ci si può ritrovare a pensare, andando con la mente a questi versi di Eugenio Montale, tratti da una sua celebre poesia, Dora Markus. Dal luminoso frastuono guardando alla quieta penombra stesa all'altro lato del canale, sotto la bianca sagoma della piccola statua della Madonna.

Arturo Lini - Tratto da Il pontile di Lido di Camaiore, edizioni Caleidoscopio, Massarosa (LU), 2009

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