mercoledì 20 aprile 2011

Luci

La casa dove da tanti anni abito è posta sulle prime pendici di una delle molte colline che fiancheggiano e si aprono sul paesaggio versiliese fatto di diverse cittadine, una accanto all'altra stese nell'eterno tepore del clima marino. Le finestre del lato ovest si aprono così su questo stemperato clima i cui colori durante il giorno mutano nel mutare del colori del cielo.

Di notte tutto questo si trasforma in un brulichio di luci: a quelle più sommesse delle abitazioni si aggiungono quelle dei lampioni a punteggiare di ritmiche cadenze le strade sulle quali scorrono quelle dei fanali delle auto che percorrono quasi incessantemente, fino a notte inoltrata, i lungomare. C’è stato un periodo, non lontano nel tempo, in cui vivevo da solo in quella casa. Uscivo raramente, quasi dovessi presidiare con la mia presenza quello spazio, reliquiario del mio io, e il mondo esterno altro non fosse che un accessorio, se non un pericolo e una minaccia all'ordine in cui scorreva il tempo.

Tutta la mia vita era regolata da abitudini. A sera, finita la cena e riposti i piatti in un qualche angolo in attesa di essere lavati quando ne avessi avuto voglia, spesso mi portavo, nel buio della stanza, verso una di quelle finestre. Amavo quello spettacolo di luci a cui mi affacciavo e la varietà di quei colori: l’arancione che presidiava in rettangolari schiere le uscite autostradali e i piazzali industriali, i bianchi viranti al blu delle fabbriche, dei piccoli magazzini, degli uffici. Le più calde tonalità delle abitazioni, uguali eppure ognuna indefinita di una particolare gradazione che forse rifletteva la verniciatura delle stanze, o il pulviscolo posatosi sui vetri in maniera diversa.
A queste loro proprietà si aggiungevano poi le intonazioni date dalla qualità dell’aria, se pulita oppure umida, se calda e estiva oppure fredda e invernale. A volte tersa accendeva quei bagliori, che si facevano più vicini; altra volte era una leggera foschia a sfuocarle e a tenerle lontane e imprecise.


In questo mutevole arcobaleno spiccava il monologo del faro, braccio di luce proteso sul mare a cui nessuna voce della stessa natura sembrava mai rispondere, e la corsa dei fanali colma di speranze e attese. A tratti il veloce volo di un lampeggio blu appariva sopra uno dei due lunghi ponti autostradali che si alzano oltre i tetti delle case lungo una striscia di terra tra la costa e le prime pianure. A volte il frastuono luminoso dallo stadio invadeva il cielo per un evento sportivo o un concerto di musica. E tutto questo sempre poi rifluiva alle immobili e rassicuranti luci delle case: la stemperata quiete delle cucine o la penombra delle sale tv e delle camere da letto, fino alle poche luci, intrise di veglie o di lavoro che rimanevano a presidiare i confini della notte fino al mattino.


Ma fra tutte quelle luci pensavo che ce ne fosse una, una sola, che solo per me splendesse, che solo io  riuscivo a vedere e solo nei miei occhi potesse aprirsi alla propria vita. A volte questo pensiero, rosa che alzava il suo stelo oltre quel prato luminoso, giungeva a me quasi in una solida fisicità: ne sentivo il profumo invadere la stanza assaporandone la fragranza. A volte mi domandavo quale di quelle luci poteva coincidere con quella realtà che solo la mia anima avvertiva.
Essa mi conduceva aldilà del presente: fissava qualcosa che un giorno si sarebbe svelato ed io e lei insieme saremmo stati. Impaziente brillava di una futura felicità, al momento a me ignota, ma certa e custodita dalla sua presenza in una regione estranea al tempo. 

Come una ininterrotta preghiera stava intercedendo per me, portava quel particolare momento oltre il luogo fisico in cui avveniva, oltre il trascorrere dei giorni, le indeterminate scelte, gli stanchi rancori che ogni esistenza incontra nel proprio percorso, ripetendomi di non fermare là gli occhi ma di cercare oltre quei vuoti paesaggi fino allo stesso cuore che in lei batteva e l’accendeva per dirmi che c’era e mi aspettava. E tutto questo finiva per riconciliarmi con la mia vita, la posava in una strada dove il passato si sfuocava e solo il domani sognato ne compiva il senso e il percorso. 

Una quiete si posava in me, lontana dal mio io ma di questo più potente trasportava quella solitudine in un luogo dove un senso diverso e sconosciuto l’attendeva. Le vuote coreografie che mi avevano accompagnato acquistavano un nuovo ordine: un’altra scena le ospitava e in quella gli atti compiuti e l’intera mia vita avrebbero valicato l’ordine del mondo, le sue ottusità, i suoi silenzi, i suoi rifiuti. 
Poi si spegneva quell'euforia, si riequilibravano gli assetti, antiche incertezze di nuovo mormoravano la loro presenza. Lentamente la mia sera declinava. Non restava che spegnere le luci di casa, chiudere le imposte: i pochi rituali atti prima del sonno. 

Nel letto chiudevo gli occhi, in quel sapore fatto di luce e brezze marine che ancora avvertivo in me e nell'aria. Quanto visto continuava a punteggiare il nero delle palpebre e della stanza: forse impressioni nervose la cui scia luminosa ancora occupava la retina. O forse quel misterioso input che continuava ad accendere di sé l’invisibile paesaggio nella cui quiete a poco a poco mi addormentavo.

Arturo Lini - 
pubblicato in BAU contenitore di cultura contemporanea n.1, Viareggio (LU) 2005

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